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giovedì 25 marzo 2010

UN ESEMPIO RARO DI POLITICA LIBERALE

Colgo l'occasione per segnalare un articolo, apparso sul Foglio, a firma dell'ex Ministro Antonio Martino che dimostra quanto sia difficile governare seguendo principi liberali o semplicemente usando il buon senso. E' utile osservare che il Prof. Antonio Martino ebbe vita difficile, molto difficile, sia con l'opposizione di Centro Sinistra che con il suo governo di Centro Destra. Il finale è straordinario perchè chiarisce bene il perchè di alcuni atti di governo apparentemente insensati. E detto da chi è stato nella stanza del bottoni ha una valenza in più. Grazie Prof. Martino! Temo che le sia, e ci sia, costato molto, infatti non è più al Governo di questo paese.

"Di Antonio Martino
31 gennaio 2010
Meno male, ho perso l'aereo
Le rivelazioni di Antonio Martino sull'affare Airbus A400M
L'ex titolare della Difesa ricorda sul Foglio come e perché ci sfilammo dal consorzio europeo


Il 22 gennaio scorso le agenzie hanno dato notizia che si era concluso con un nulla di fatto l’incontro di due giorni tenuto a Berlino dai rappresentanti dei paesi clienti del programma A400M sul futuro del progetto. In particolare, il ministro della Difesa della Repubblica federale di Germania, Karl Theodor zu Guttenberg, aveva definito inaccettabile l’opzione di ricevere un minor numero di aerei A400M per il prezzo stabilito di 20 miliardi di euro. “Ottenere meno per gli stessi soldi per me è inaccettabile” era stato il lapidario commento di Guttenberg.
La vicenda aveva attirato l’interesse degli organi d’informazione nei giorni precedenti. Per esempio, il 6 gennaio in un lungo articolo significativamente intitolato “Airbus minaccia di bloccare l’A400M” il Sole 24 Ore dava conto delle difficoltà del programma e del suo incerto futuro. Per chi non lo sapesse, l’aereo in questione dovrebbe essere dedicato al trasporto militare e rappresentare un primo esempio d’iniziativa europea in materia d’industria della difesa. Il consorzio dell’aereo, istituito nel 1970 (sic) è composto da sette paesi – Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Belgio, Lussemburgo e Turchia – e ha recentemente incontrato difficoltà che hanno fatto aumentare i costi previsti di 5,3 miliardi di euro. Airbus sarebbe disposta ad accollarsi al massimo tre miliardi di questi costi aggiuntivi ma chiede che gli altri 2,3 miliardi siano sborsati dai paesi interessati; altrimenti, in mancanza di un accordo entro la fine del mese, cancellerà del tutto il progetto per dedicarsi esclusivamente all’aviazione civile.
Queste notizie mi hanno riportato alla mente le vicende che condussero l’Italia ad abbandonare il consorzio nel 2001. La storia, credo, merita di essere raccontata. Non appena insediato come ministro della Difesa, l’11 giugno 2001, mi fu sottoposta la questione dell’adesione dell’Italia al consorzio per l’aereo da trasporto militare della società francese Airbus, cui il governo di centrosinistra aveva dato la sua adesione in linea di principio, e che avrebbe dovuto essere formalizzata con la mia firma pochi giorni dopo.
Non essendo adeguatamente informato sulla vicenda, convocai i vertici militari perché mi facessero il punto della situazione. Venni così a sapere che il centrosinistra, prima di mostrarsi interessato all’A400M, aveva ordinato 22 aerei da trasporto militare C130J prodotti dall’americana Lockheed, che cominciavano proprio allora a esserci consegnati. Chiesi se fossero sufficienti alle esigenze di trasporto dell’Aeronautica militare. Mi fu risposto che il progetto dell’A400M serviva a far nascere un’industria europea della difesa e che la partecipazione dell’Italia avrebbe comportato vantaggi in termini di commesse per alcune industrie italiane del settore, che avrebbero prodotto qualche parte. Non essendo del tutto convinto, posi invano il quesito se l’aereo servisse all’Aeronautica italiana.
Per essere certo di non prendere una decisione sbagliata, sentii anche altre opinioni e scoprii che l’Aeronautica non solo non riteneva indispensabile per la sua linea di trasporto la partecipazione al consorzio dell’aereo francese, ma che per il trasporto dei mezzi e dei materiali le Forze armate italiane facevano ricorso al noleggio di un aereo di produzione russa, l’Antonov 70, che, a differenza dell’A400M, esisteva già, aveva un costo unitario molto minore, e aveva una portata quasi doppia rispetto a quella che avrebbe avuto l’aereo francese una volta realizzato.
Sapendo che il trasporto di mezzi e materiali militari per missioni all’estero costituiva un’esigenza abbastanza infrequente, l’idea di preferire il noleggio all’acquisto mi sembrava assolutamente sensata. Chi di noi acquisterebbe un’automobile sapendo che al massimo ne avrà bisogno due o tre volte l’anno? Molto più economico affittarla quando serve. Del resto, come detto, sempre per scelta del centrosinistra, l’Aeronautica militare era già stata largamente dotata di aerei da trasporto peraltro affidabilissimi. Mi convinsi, quindi, che l’adesione al progetto fosse inutile e contraria agli interessi nazionali e, adducendo come giustificazione il fatto che il governo, non avendo ancora ottenuto la fiducia del Parlamento, non era nella pienezza dei suoi poteri, non partecipai all’incontro internazionale.
Apriti cielo! Fui sommerso da critiche e contumelie, accusato d’essere anti-europeista e filo-americano, di avere preferito un aereo americano a uno europeo (dimenticando che l’acquisto dei C130J era stato deciso dal centrosinistra), di far perdere alle industrie italiane commesse lucrative e chi più ne ha più ne metta. Persino il normalmente cortese Letta (Enrico, ovviamente, non Gianni) stigmatizzò quella che chiamò “politica della sedia vuota” (che credo sia da preferire alla politica della testa vuota)!
Il mio problema divenne quello di far accettare questa mia scelta e scoprii immediatamente che la cosa non era per nulla facile. Dovetti anzitutto dare conto alle commissioni parlamentari congiunte Esteri e Difesa di Camera e Senato. In risposta a una domanda, dissi che “nell’occasione la Francia non si è limitata a elargire croci della Legion d’onore”. L’effetto di questa mia affermazione fu che l’indomani mi pervenne una lettera dell’ambasciatore francese che pretendeva scuse ufficiali. Chiesi al mio consigliere diplomatico di informare l’esimio rappresentante della sorella latina che mi ero limitato ad alludere alla notizia ampiamente riferita dalla stampa tedesca quella mattina secondo cui gli sforzi per ottenere l’adesione dei vari paesi al progetto avrebbero incluso anche incentivi pecuniari.
Tempo dopo, trovandomi alla riunione dei ministri della Difesa della Nato a Bruxelles, convinto che avrei dovuto informare i paesi interessati della decisione italiana, telefonai al presidente del Consiglio per sapere se ero autorizzato a farlo. Mi rispose che potevo procedere e così feci. In quell’occasione trovai impeccabile la risposta del collega francese, il socialista Alain Richard, che comprese perfettamente le mie motivazioni e incassò la decisione senza battere ciglio.
La mia soddisfazione per l’esito della vicenda, tuttavia, non durò a lungo. Tornato a Roma, in occasione di una riunione del Consiglio dei ministri, il nostro ministro degli Esteri, Renato Ruggiero, manifestò la sua convinta disapprovazione per la mia scelta. Per rabbonirlo il presidente del Consiglio sostenne che si era trattato di una mia iniziativa personale e che il governo non aveva ancora deciso. Per nulla soddisfatto, Ruggiero pretese che il Parlamento fosse informato di come stessero effettivamente le cose e fu così che Berlusconi, evidentemente dimentico di avermi autorizzato, mi chiese di andare in Aula alla Camera per dichiarare che si era trattato solo di un mio personalissimo parere. Renato Ruggiero e io avemmo nei primi mesi di vita del governo un rapporto ispirato a sincera simpatia e fruttuosa collaborazione. Renato diceva che eravamo “twin ministers”, ministri gemelli, e approfittando di questo simpatico rapporto, lo avevo prontamente informato di cosa pensassi dell’A400M, chiedendogli di aiutarmi a fare accettare la decisione ai partner europei. Con mio grande stupore, la documentazione che gli avevo trasmesso non lo convinse: era irrimediabilmente dell’idea che l’Italia dovesse aderire al consorzio del maledetto aeroplano. La nostra divergenza di vedute non ha cancellato la stima e l’amicizia che provo nei suoi confronti e che ritengo ricambiate.
Andai in Aula e non fu un’esperienza piacevole.
Ricordo vividamente lo scambio di battute con Marco Minniti, responsabile per la Difesa dei Ds, che era stato sottosegretario alla Difesa nel governo D’Alema. Dimentico del fatto che la decisione di acquistare i 22 C130J era stata presa dal governo di cui aveva fatto parte, insisteva nel caldeggiare la partecipazione al consorzio dell’aereo francese e lasciava trapelare la sua convinzione che la mia posizione fosse determinata anche da un pregiudiziale favore per gli Stati Uniti d’America e da una irragionevole antipatia per l’Europa. Ovviamente, entrambe le cose erano irrilevanti e fondate su ipotesi false.
Una delle differenze fra la tesi dei fautori dell’A400M e la mia era che per me un aereo militare merita di essere acquistato se e soltanto se serve alle esigenze dell’Aeronautica; i miei critici, invece, erano convinti che dovesse servire all’industria italiana e all’integrazione dell’Europa. Rispondendo a quei due requisiti, doveva essere comprato anche se non particolarmente necessario alla nostra forza aerea. Vanamente tentai di far comprendere che scavare buche nei campi da tennis per poi farle riempire “crea” lavoro sia per i “buchisti” sia per i “copribuchisti” ma che non per questo fa l’interesse dell’economia nazionale. Costruire parti di un aereo è conveniente per chi quelle parti produce, ma acquistare un mezzo militare che non serve alle Forze armate significa sprecare risorse che potrebbero essere impiegate altrimenti.
Noi non acquistiamo un prodotto per fare un piacere a chi lo vende, ma perché lo riteniamo utile e conveniente. Gli acquisti non si fanno perché convengono a questo o a quel produttore, ma perché l’acquirente è convinto dell’utilità del prodotto e della sua economicità. Fuor di metafora, è l’industria che dev’essere al servizio della Difesa, non il contrario. Non vi pare? Quanto all’integrazione europea, è vero che la Difesa è un tipico “bene pubblico europeo” – un obiettivo che può essere perseguito più efficacemente a livello europeo che non a livello nazionale – ma non si vede perché la produzione di un aereo per altri versi antieconomica dovrebbe giovare alla difesa dell’Europa. Né mi è chiaro perché mai una difesa europea implichi necessariamente la necessità di un’industria europea della difesa, autonoma rispetto a quelle di altri paesi. Se, per esempio, un aereo militare può essere acquistato da paesi non europei a condizioni più favorevoli di quanto non siano quelle di uno prodotto in Europa, optare per questa seconda ipotesi significa solo sprecare risorse.
L’esempio più clamoroso è offerto dalla vicenda dell’Eurofighter o Typhoon, un intercettore puro ideato all’inizio degli anni 80 per contrastare la superiorità del Mig 29 dell’Unione sovietica. Quest’ultima non esiste più e il suo eccellente intercettore è ormai divenuto pezzo da collezione, ma il consorzio europeo dell’Eurofighter esiste ancora e l’Italia, per decisione del governo D’Alema, si è impegnata ad acquistarne 122 esemplari! Ognuno di questi costa quasi dieci volte più di un F16 americano e non ne ha le capacità: l’F16 è anche un bombardiere che può fare uso di Pgm (“precision guided munitions”, le cosiddette bombe intelligenti), mentre l’aereo europeo è soltanto un intercettore, un caccia. Ha senso produrre in Europa a un costo di dieci volte superiore un aereo inferiore? A me non sembra.
Può darsi, tuttavia, che dal 2006 a oggi l’inferiorità dell’aereo europeo rispetto a quello americano sia stata eliminata e devo anche riconoscere che si tratta di una splendida macchina (l’ho anche pilotato!), ma dubito che gli artigiani del nord-est e i contribuenti considerino un buon affare pagare tasse per finanziare sprechi. Il vero europeista non è chi in nome dell’Europa sacrifica gli interessi del suo paese. L’europeismo autentico è, viceversa, basato sulla convinzione che un’Europa unita consenta di realizzare meglio l’interesse nazionale.
Tornando all’aereo francese, anche se confesso che mi asterrò dal pianto nel caso in cui non fosse prodotto, devo ammettere che provo sincera gratitudine nei suoi confronti. Grazie ad esso, credo di potere con tutta serenità affermare di essere stato il primo ministro della Difesa al mondo a rifiutare un mezzo militare che il suo governo gli offriva. In genere accade il contrario: il ministro chiede per le Forze armate qualcosa che, per una ragione qualsiasi, il governo si rifiuta di concedergli! Ma come riuscii a ottenere quell’esito? Dopo qualche tempo, la presidenza del Consiglio decise che si doveva mettere la parola fine a una vicenda durata anche troppo a lungo. Venne così convocata una riunione cui presero parte il presidente del Consiglio, il sottosegretario alla presidenza, il vicepresidente del Consiglio, il ministro degli Esteri e quelli dell’Economia, Attività produttive, Affari europei, e io. Giulio Tremonti disse che non era contrario all’A400M e, quando gli rinfacciai la stranezza di negare alla Difesa un miliardo di lire per la manutenzione dell’aeroporto di Pristina e poi dirsi disposti a sborsarne un gran numero per qualcosa che gli interessati reputavano non necessario, abbandonò la riunione.
Antonio Marzano si limitò a sostenere quanto era ovvio: se la Difesa dice che ne può fare a meno, non si vede perché si debba acquistare. Ruggiero dichiarò che non difendeva il progetto per ragioni militari né per europeismo ma per ragioni di politica industriale: partecipare era nell’interesse dell’industria italiana ed europea. Gianfranco Fini osservò che se perfino l’“imbelle” Lussemburgo partecipava, l’Italia non poteva restare fuori. Fu a questo punto che lasciai cadere l’osservazione che un ministro italiano aveva avuto l’onestà e lo scrupolo di informare la presidenza del Consiglio di avere ricevuto l’offerta di una percentuale sull’affare se avesse convinto il governo ad aderire. Fu come se avessi sganciato una bomba: Fini mi accusò di essere un irresponsabile, Ruggiero dichiarò con forza che non si sarebbe mai più occupato della questione e così via. La riunione si concluse con la vittoria della mia tesi.
Morale: le frodi e il malaffare connessi alle forniture militari risalgono alla notte dei tempi e il problema, temo, non ha una soluzione infallibile in tutti i casi. In questa, come in molte altre circostanze, non sarebbe male se gli interessati avessero a cuore la Difesa, che è la sola ragion d’essere dello stato, l’unico presidio alle nostre libertà e la nostra ragione di speranza nel futuro.
di Antonio Martino
© - FOGLIO QUOTIDIANO
31 gennaio 2010

lunedì 22 marzo 2010

ENDORSEMENT? NO GRAZIE

Ho letto gli articoli pubblicati dall’amico Riccardo Rinaldi e, come scritto in un commento al primo articolo, continuo a non essere d’accordo sulle ragioni espresse a favore di un endorsement personale per quelli che Rinaldi considera “i meno peggio”.

Preciso, per coloro che leggono il blog della nostra associazione, che le opinioni espresse dalle pagine del blog sono opinioni personali e non coinvolgono il Centro Studi Liberali Benedetto Croce che è un’associazione culturale, non legata ad alcun partito, e che vanta tra i suoi iscritti persone che votano partiti di destra, di centro, di sinistra e anche chi non vota affatto.

Entrando nel merito delle tesi di Rinaldi circa queste elezioni regionali, noto due importanti difetti: 1) il primo riguarda la tipologia di delega che diamo in questa tornata che non riguarda i temi della fiscalità o della immigrazione che sono competenze del governo centrale. Se guardiamo i bilanci, le Regioni sono soggetti che prevalentemente si occupano di Sanità e Agricoltura e sono titolari dei fondi europei. Il voto sulle regionali dovrebbe quindi essere indirizzato su questi temi e non su quelli di fiscalità e immigrazione. Vorrei sapere come i canditati Presidenti e come i candidati Consiglieri vogliono rendere la mia regione la migliore nelle statistiche sui servizi che questa eroga. Solo così posso andare a votare, magari senza avere la risposta che avrei voluto ascoltare, ma scegliendo quella ritenuta migliore tra quelle esposte.

2) il secondo errore, secondo me è quello di invitare a votare chi dice una cosa e invece ne fa un’altra. Questo, secondo me, è premiare chi non rispetta i patti, premiare l'inaffidabilità di chi governa, di chi si muove sul piano politico quasi esclusivamente per interesse privato a danno della grande maggioranza dei contribuenti. Votare turandosi il naso ha permesso che l'Italia diventasse il paese europeo più indebitato, con la corruzione più alta, con il tasso di sviluppo più basso, con la burocrazia più ingombrante e alla pressione fiscale più elevata. Siamo il paese con il minor senso civico e dello Stato e con il sistema democratico più traballante (ci stiamo rendendo conto che ormai ad ogni tornata elettorale si cambiano le regole del gioco a seconda delle posizioni vantaggio o svantaggio dei contendenti). E poi...siamo sicuri che il PDL "predichi bene"?
Votare è un diritto che vorrei esercitare senza dovermi turare il naso per scegliere il meno peggio. Possibile che nessuno di noi possa aspirare a qualcosa di meglio?. Da semplice liberale (senza definirmi autentico) mi permetto di dubitare dei maestri, anche di Indro Montanelli. Inoltre, lo stesso Montanelli, fece questa dichiarazione, che non condivido, in un periodo molto particolare: gli avevano da poco sparato alle gambe e si profilava in Italia un bel regime, stato di polizia da una parte e rivoluzione proletaria dall’altra e forse non si poteva andare troppo per il sottile.

Mi permetto inoltre di esprimere un’opinione anch’essa personale: La posizione della Lega Nord in tema di immigrazione non può essere considerata liberale (“autenticamente liberale” direbbe Riccado Rinaldi). La posizione liberale è quella di Milton Friedman che diceva: “gli immigrati hanno due braccia ed una sola bocca, quindi sono una risorsa per il paese”. Gli immigrati sono in genere le persone più capaci dei paesi di provenienza, retti spesso da dittature o paesi dove si fa la fame vera. Sono persone che cercano la fortuna dove le condizioni lo permettono. La clandestinità è nella stragrande maggioranza di casi un problema indotto da leggi proibizioniste (e il proibizionismo non è liberale). In Italia inoltre abbiamo un problema in più… dato che non riusciamo a tenere i nostri giovani migliori che debbono sempre più spesso cercare fortuna all’estero (nuovi emigrati), non riusciamo ad attrarre cervelli stranieri ma solo persone che debbono occuparsi di lavori umili che gli italiani non vogliono più fare. Il saldo è negativo (esportiamo cervelli, importiamo manodopera) ma le ricette della Lega, purtroppo, non sono quelle che ci faranno fare il salto in avanti.

Caro Riccardo, ci vuole coraggio! Mettiamoci in pista e smettiamola di turarci il naso, altrimenti si determina una situazione rischiosa. Quella di vedere posizioni liberali anche dove non ci sono e poi ci convinciamo che lo siano solo perché espresse da una parte politica che usa la parola “libertà” negli slogan. Così funziona la pubblicità commerciale!

Cerchiamo invece di fare noi proposte, trovare degli interlocutori politici affidabili che le possano portare avanti, richiamarli all’ordine quando non rispettano gli impegni. Questa credo sia la democrazia (anche se non liberale). Su questo si dovrebbe fondare il principio della delega del potere. Altrimenti parliamo di tifo politico, di arbitrio. In altre parole è su questo che si esercita uno dei diritti del cittadino che altrimenti rischia di essere semplicemente un suddito. (di CLAUDIO FERRETTI)

domenica 21 marzo 2010

ELEZIONI REGIONALI MENO UNA SETTIMANA

Dunque c’eravamo lasciati a tre settimane dalla elezioni regionali con il ragionamento “turiamoci il naso e andiamo a votare per uno schieramento” sulla base della dicotomia tasse bellissime – tasse odiose.


Ma all’interno dello schieramento di centro destra si trovano posizioni eterogenee su vari argomenti ed allora proviamo a prenderne uno e ad analizzarlo con la nostra speciale lente liberale.

In questi giorni tutti parlano di giustizia, di informazione, di crisi economica, ma io preferisco affrontare il tema della immigrazione perché forse è quello in realtà davvero più percepito dalla gente, nonostante le distrazioni causate dagli ultimi fatti di cronaca (corruzione, intercettazioni ed escort di turno).

Accetto la sfida di parlare di immigrazione allettato anche dal fatto che ogni liberale che si rispetti si trova un po’ spiazzato davanti al tema della globalizzazione e del significato prevalentemente dispregiativo con il quale viene affrancato da tanti .

La globalizzazione invece presuppone una estensione del principio di libero scambio per merci, capitali e persone dovunque, in ogni parte del mondo e quindi, a prima vista, una perfetta ricetta di liberalismo puro.

Voglio dimostrare che in realtà questo è un argomento ostico per un liberale vero, al di là delle apparenze, e va sciolto attraverso ragionamenti sopraffini, per nulla banali.

Non ci si ricorda mai abbastanza di quel titolo del capolavoro di Frederic Bastiat “Quel che si vede e quel che non si vede” nel quale già a metà ottocento si metteva in guardia il popolo sprovveduto rispetto ai giochi di illusionismo al quale il potere di allora ricorreva per spacciare liberalismo falso per liberalismo vero.

L’immigrazione oggi è esplosa come un fenomeno mondiale all’apparenza inarrestabile che riguarda tutti i paesi sviluppati, specie se confinanti con paesi in via di sviluppo.

Non ci occuperemo del diritto di asilo per ragioni umanitarie, ma solo delle accoglienze promosse da semplici fattori economici, cioè povertà verso ricchezza.

Il punto di vista liberale afferma che ogni forma di sviluppo della competizione procura un incremento della ricchezza delle nazioni che va a beneficio di tutti, anche delle classi più deboli e che a marcare le differenze tra gli individui deve essere l’impegno e il merito personale.

Quindi alle fondamenta sta sempre il principio della libera competizione, se non c’è quello il sistema non può considerarsi liberale.

Applicato al tema della immigrazione significa che essa è benefica se va ad alimentare il meccanismo concorrenziale in una società già di per se concorrenziale.

Ma è questo il caso dell’Italia e in generale dei principali paesi dell’occidente?

Riflettiamo.

L’immigrazione in Italia è concentrata in una ben precisa nicchia di lavoro: quello che gli Italiani rifiutano di fare.

Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di badanti, di addetti alle pulizie, di raccoglitori di prodotti agricoli, di manovali non specializzati, di facchini etc.

Questi lavoratori cioè non vanno a modificare il grado di efficienza con il quale vengono prodotti determinati servizi, ma vanno semplicemente a sostituire intere classi di lavoratori indigeni i quali rivolgono altrove i loro interessi.

L’immigrazione italiana è prevalentemente illegale e alimenta le attività esercitate “in nero” con tutte le conseguenze che si immaginano in termini di sicurezza sul lavoro, di evasione fiscale, per non parlare poi di sleale concorrenza che non può neppure chiamarsi più tale quanto legge della Jungla.

Gli Italiani che rifiutano i suddetti lavori in blocco, in realtà per la stragrande maggioranza vanno ad ingrossare le fila di coloro che approfittano del colabrodo del sistema sociale il quale garantisce un fondo di sussistenza a tutti purchè siano cittadini italiani.

In molte regioni d’Italia poi vengono procacciate braccia al sistema malavitoso o in generale a quel mondo di nullafacenti che vivono di espedienti per truffare lo Stato prima di tutto e talvolta la gente onesta.

Insomma l’arrivo di immigrazione tutta concentrata in determinate classi di lavoratori non produce leale concorrenza, ma fornisce unicamente manovalanza a basso costo e sposta tutta una massa di cittadini italiani verso fasce sociali che a loro volta non producono concorrenza.

Il problema della sicurezza sociale si acuisce quindi per gli effetti concomitanti della delinquenza importata dall’esterno e quella indotta verso l’interno.

Sorgono così gravi effetti sul sentimento di sicurezza e benessere che ad un certo punto diventa socialmente insostenibile.

Non va poi dimenticato che l’Italia soffre di una grave sindrome per cui buona parte dei suoi lavoratori operano in regime di totale protezione (dipendenti pubblici, quelli ufficiali e quelli assimilabili, poi ordini professionali etc.), con la conseguenza che per questi l’effetto immigrazione non è neppure avvertibile in senso di evoluzione concorrenziale.

Anzi per essi diventa solo un problema sociale e un problema di convivenza.

Per tutte queste ragioni si comprende che il punto di vista liberale sul tema della immigrazione dovrebbe, a mio avviso, pretendere che ogni ingresso nel nostro paese debba essere regolamentato.

Anzi devono valere in modo rigido i meccanismi di contingentamento con una caratteristica peculiare: dovrebbero essere spalmati su un più ampio ventaglio di categorie di lavoratori, non cioè solo verso quelli attualmente interessati (badanti etc.)

Per fare ciò si potrebbe organizzare presso le ambasciate dei paesi più poveri scuole di qualificazione (finanziate dall’Italia) alle quali dovrebbero accedere i giovani del posto con il doppio obiettivo di andare a pescare lì i possibili lavoratori immigrati e comunque lasciare alla Nazione in via di sviluppo una massa di giovani scolarizzati e qualificati a spese dell’Italia.

Questo sì che sarebbe un serio metodo per aiutare i popoli bisognosi e promuovere allo stesso tempo vantaggi anche in patria.

Cioè l’immigrazione deve avere due caratteristiche; essere regolamentata (e quindi non clandestina) e deve coprire tutte le tipologie di lavoro per migliorare, attraverso la competizione, le prestazioni lavorative stesse e di conseguenza i prodotti e i servizi che se ne ricavano.

Naturalmente tutto questo sta agli antipodi di qualsiasi forma di protezionismo che a parole tutti dichiarano di rifiutare.

In conclusione a me sembra che le riflessioni alle quali sono stato portato seguendo il filo del pensiero liberale coincidono in modo abbastanza preciso con le idee sostenute da tempo dalla Lega Nord.

Creare legislativamente un regime di ingressi regolamentati che vadano a favorire la libera concorrenza per molte classi di lavoro rappresenta un obiettivo auspicabile e per niente razzista.

Lo definirei forse pragmatico, ma non razzista, anzi la preoccupazione di favorire la formazione di lavoratori presso i paesi terzi mi sembra invece piuttosto generoso e comunque reciprocamente conveniente.

Per tutte queste ragioni non trovo in contrasto la posizione liberale rispetto a quella politicamente sostenuta con vigore dalla Lega Nord sul fenomeno dell’immigrazione, purchè la Lega Nord sia disposta ad accettare il contingentamento di ingressi anche per le altre categorie di lavoratori oggi immuni e respinga ogni tentazione protezionistica .

Scritto da Riccardo Rinaldi

lunedì 15 marzo 2010

ANALISI DELLA CRISI IN CORSO

Ralf Dahrendorf, dimostra nell'articolo che vi allego di rappresentare un esempio di quel mondo culturale che non vuole arrendersi alla omologazione del potere economico imperante.
Con lucidità e perspicacia esamina le ragioni di questa crisi e ne anticipa i possibili rimedi.
Apprezzabile è la sua analisi di carattere morale che accompagna sempre i periodi di frattura storica tra un passato ed un futuro che non si conciliano, una cuspide della storia come tante già trascorse e tante che dovranno venire.
Scritto da Riccardo Rinaldi
AL MERCATO DELLA RESPONSABILITA’


di Ralf Dahrendorf



Chi nel 2009 parla "della crisi" non ha bisogno di spiegare ai suoi lettori o ascoltatori di che cosa si tratti.

E le spiegazioni del crollo socio-economico sono così varie quanto le reazioni alla crisi stessa.

Vanno dal troppo specifico al troppo generale e confondono più di quanto non spieghino.

All'estremità ultraspecifica di queste spiegazioni vi è la tesi che tutto quanto è successo nell'economia mondiale dallo scorso settembre è riconducibile alla decisione del Governo americano di non proteggere la banca Lehman Brothers dall'insolvenza.

Una singola decisione avrebbe così scatenato un effetto domino che ha scosso prima la finanza e poi l'economia reale.

All'altra estremità vi è invece chi parla di un crollo del "sistema".

D'altronde forse già Carl Marx non aveva profetizzato una brutta fine per il capitalismo? Tra questi due estremi viene offerta ogni sorta di spiegazioni politico-economiche possibili.

Ma quando le spiegazioni di un fenomeno diventano così varie, è bene mantenere la calma.

Evidentemente non sappiamo ancora dove porti la crisi.

Non sappiamo quanto durerà e abbiamo solo una vaga idea di come sarà il mondo quando sarà finita.

La tesi qui sostenuta è che abbiamo vissuto un profondo cambio di mentalità e che adesso, in reazione alla crisi, siamo di fronte a un nuovo mutamento.

Al cambio che abbiamo alle spalle si può dare un nome semplice: è il passaggio dal capitalismo di risparmio a quello di debito.

Il brillante scritto di Max Weber su L'etica protestante e lo spirito del capitalismo ha i suoi punti deboli, ma rimane plausibile la tesi weberiana che l'origine dell'economia capitalista richieda una diffusa predisposizione a rimandare la soddisfazione immediata dei bisogni.

L'economia capitalista si mette in moto solo quando gli uomini non si aspettano di godere subito i frutti del loro lavoro.

Nel protestantesimo calvinista l'aldilà era il luogo della ricompensa per il sudore versato lavorando nell'aldiqua.

Da allora tuttavia si è verificato quel cambio di mentalità di cui scrive Daniel Bell in vari saggi del suo libro Cultural Contradictions of Capitalism.

Egli parla dello <>.

In altre parole, il capitalismo sviluppato esige dagli uomini elementi dell'etica protestante quando sono sul luogo di lavoro, ma al di fuori di esso, nel mondo del consumo, richiede proprio il contrario.

Il sistema economico in un certo senso distrugge le proprie premesse mentali.

Quando Bell scrive questo, non si era ancora compiuto il nuovo cambio di mentalità economica, ovvero il passaggio dalla mania consumistica alla gioiosa abitudine di fare debiti.

Quando è cominciato questo percorso? Di sicuro negli anni 80 c'erano già persone che per un centinaio di marchi facevano un giro del mondo di sei settimane pagando le ultime rate dei costi effettivi quando già più nessuno dei loro amici e conoscenti voleva vedere le diapositive scattate a Rio o Bangkok.

Giustamente Daniel Bell parla dei pagamenti a rate come del peccato originale.

Allora il capitalismo, che era già mutato dal capitalismo di risparmio a quello di consumo, si avviò finalmente verso il capitalismo di debito.

Ed è proprio qui il passaggio dal reale al virtuale, dalla creazione di valore al commercio dei derivati.

Si diffuse un comportamento che permetteva il godimento non solo prima del risparmio, bensì addirittura prima del pagamento.

<> divenne una massima d'azione.

Ma il cambiamento di mentalità qui tratteggiato è instabile.

Non si possono fare debiti all'infinito. Questa è proprio l'esperienza della crisi, nella quale cresce anche la tentazione di sostituire i debiti privati con quelli pubblici.

Ci si pone così la domanda sull'aspetto che assumerà il mondo dopo la crisi.

Parlare seriamente di ciò nella primavera del 2009 è un'impresa temeraria. E tuttavia una serie di sviluppi appare quantomeno molto probabile.

Quanto durerà la crisi? Due anni? Tre anni? Le condizioni generali dell'economia e della società in molti luoghi, come appunto in Europa, non sono particolarmente piacevoli.

Esse potrebbero però diventare la causa di un nuovo cambiamento di mentalità, il cui nucleo risiede in un rapporto nuovo col tempo.

Una caratteristica del capitalismo avanzato di debito era l'agire con il fiato incredibilmente corto.

Nel caso estremo dei commercianti di derivati significa che essi avevano già passato di mano il denaro fittizio prima ancora di porsi il quesito su quanto esso realmente valesse.

Ma un simile comportamento era solo parte di una frenesia più generalizzata.

Degli sviluppi imprenditoriali si dava notizia non più con cadenza annuale, bensì trimestrale e spesso a intervalli ancora più brevi.

I top manager non presentavano più prospettive di lungo periodo; molti venivano congedati dopo pochissimo tempo con una stretta di mano milionaria.

I politici si lamentavano di questo agire dal fiato corto, ma ne condividevano sempre più le debolezze. Per questo motivo è dall'alto che deve iniziare un nuovo rapporto con il tempo.

La questione dei compensi ai manager - uno dei motivi di rabbia popolare - diventa risolvibile solo nel momento in cui i redditi vengono agganciati a conquiste di lungo periodo.

In questo modo si può riportare al centro delle decisioni anche un concetto che negli ultimi anni del capitalismo di debito è stato dimenticato, ovvero quello degli "stakeholder".

Con questa parola s'intendono tutti quelli che magari non hanno delle partecipazioni in un'impresa, ovvero che non sono "stakeholder", ma che hanno un interesse esistenziale alla sopravvivenza e al successo dell'azienda: i fornitori e i clienti, ma soprattutto gli abitanti delle comunità in cui sono attive le imprese.

Per essi non è tanto importante la cogestione quanto il riconoscimento dei loro interessi da parte del management, e ciò a sua volta presuppone che i dirigenti sappiano guardare oltre il loro naso anziché tenere sott'occhio solo i profitti e i bonus del prossimo trimestre.

Anche il superamento delle questioni strettamente globali dipende da una nuova prospettiva temporale.

Che l'agire venga determinato da un pensare a breve o, invece, a medio periodo lo si capisce anche da come viene attuata la politica di lotta ai cambiamenti climatici o, meglio, alla mancanza di una tale politica.

Forse sono necessari avvenimenti radicali per favorire un'agire orientato al futuro.

Probabilmente il Bangladesh o l'Olanda dovranno affondare nelle onde marine prima che s'imponga il messaggio di Al Gore o Nicholas Stern.

Il cambio centrale di mentalità che potrebbe nascere da questa crisi è quindi un nuovo rapporto col tempo nell'economia e nella società.

Ultimamente, d'altro canto, si fa un gran parlare di fiducia e responsabilità.

Sono necessarie entrambe, ma entrambe presuppongono che cessi il modo di pensare estremamente miope di chi ha in mano il potere.

Perché ciò avvenga, il management deve scendere dai piani alti affinché chi prende le decisioni si rapporti nuovamente in modo responsabile verso le persone di cui ha in mano il destino.

Per favorire questo cambio di mentalità sono necessarie misure in parte reali e in parte simboliche.

Si dovrebbe quindi verificare un ritorno all'etica protestante di beata memoria? E' possibile un tale ritorno? La risposta all'ultima domanda non può che essere: probabilmente no.

In questo modo anche la prima domanda perde di valore. Ciò che non può essere , allora non sia. Le nostre economie moderne non potranno tornare indietro a Keynes e dopo di lui il pensare all'eternità con la speranza di una ricompensa nell'aldilà ha perso la sua forza e la sua attrattiva.

Non ci sarà quindi nessun ritorno all'etica protestante.

E tuttavia un ravvivamento delle antiche virtù è possibile e auspicabile.

Il paradosso del capitalismo di cui parla Daniel Bell non potrà sparire del tutto: il motore del capitalismo moderno fonda su preferenze che i metodi del capitalismo moderno non contribuiscono a rafforzare.

Per formularla in maniera meno astratta: lavoro, ordine, servizio, dovere rimangono i prerequisiti del benessere; ma lo stesso benessere significa piacere, divertimento, desiderio e distensione.

Gli uomini lavorano duro per creare beni che in senso stretto sono superflui.

Non torneremo al capitalismo di risparmio, ma a un ordine in cui il soddisfacimento dei bisogni è coperto dal necessario valore aggiunto.

Il capitalismo di debito deve essere ricondotto a una misura sopportabile.

E' necessario qualcosa come un "capitalismo responsabile", sebbene nel concetto di responsabilità è necessario che risuoni soprattutto la prospettiva di medio periodo, ovvero quella di un nuovo rapporto col tempo.

E' importante che tra pacchetti congiunturali e schemi di salvataggio non si perda di vista il dopo crisi, perché in questi anni si decide in quale tempo vivrà la prossima generazione di cittadini delle società libere.

venerdì 5 marzo 2010

ELEZIONI REGIONALI MENO TRE SETTIMANE

Le elezioni regionali sono alle porte e sarebbe bene che sul nostro blog si potessero leggere post di indirizzo politico in attesa del voto che comunque la si pensi è un momento speciale di quell'animale sociale che è l'uomo.
La politica degli ultimi decenni ha portato l'Italia ad un sistema maggioritario che costringe i votanti a schierarsi di qua o di là per non sprecare il voto verso formazioni che poi non avranno voce in capitolo (non me ne voglia Casini).
Nel corso dell'ultima riunione del nostro circolo il Prof. Brunelli ha proposto di incentrare i corsi di avviamento al pensiero liberale nelle scuole presentando ai ragazzi la figura del giornalista Indro Montanelli.
L'ho trovata una idea molto brillante e l'ho sostenuta con decisione in quanto ritengo che quell'esempio di figura libera in un mestiere, quello del giornalista, che più di altri spinge al servilismo verso chi ti offre il pane per vivere, merita di essere divulgata tra le giovani generazioni.
Montanelli, quando si avvicina una qualche elezione, diceva di turarsi il naso e di andare a votare in un certo modo.
Voglio provare a far rivivere Montanelli e spiegare perchè oggi c'è ancora da turarsi il naso e andare a votare lo schieramento di centro-destra.
C'è un argomento che per chi si sente liberale assurge a cartina di tornasole per verificare da che parte stare.
Questo argomento è quello della fiscalità
Il precedente Ministro dell'economia Prof. Padoa Schioppa del precedente Governo di centro sinistra rilasciò in televisione una dichiarazione che da quel momento è rimasta impressa nelle menti di tutti gli Italiani "Le tasse sono bellissime".
Noi liberali invece diciamo "le tasse sono odiose ma necessarie e perciò devono corrispondere al minimo indispensabile".
Su questo argomento siamo tutti molto sensibili, ma noi liberali più degli altri.
Finchè la sinistra non smentisce ufficialmente la dichiarazione di Padoa Schioppa e condivide la nostra io credo che non si possa ragionevolmente votare a sinistra.
Lo dico con tutta la stima per le tante persone di sinistra che credono ingenuamente che l'interventismo statale sia un valore aggiunto.
Noi liberali autentici siamo convinti invece che la condizione di minimo stato sia quella più vantaggiosa proprio per le categorie più povere, quelle per intenderci che la sinistra vorrebbe tutelare.
Questo argomento è per noi quello dal quale deriva poi tutto il resto e da cui non si può transigere.
E' vero che il centro destra parla di abbassare le tasse e poi non fa nulla, che parla di introdurre la concorrenza e poi invece di privatizzare i settori più favorevoli ad un regime di mercato, tenta di privatizzare la Protezione Civile che con il mercato non centra un bel nulla.
Per tutte queste ragioni vale il consiglio del buon Montanelli di turarsi il naso e andare a votare chi a parole dice il giusto e poi razzola male rispetto a chi sbaglia anche a parlare.
Per dare una dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, di quanti soldi si potrebbero risparmiare se solo lo si volesse veramente, di quanta parte parte del pubblico erario se ne va in sprechi inutili quando non in veri balzelli occulti, riporto un breve articolo che ho ripreso navigando qua e la su internet (provenienza liberale).
Sono certo che dopo averlo letto tutti arriviamo a stimare che se il bilancio statale (cioè le nostre tasse) fosse ridotto della metà nessuno si accorgerebbe in termini di servizi pubblici.
Provare per credere, scritto da Riccardo Rinaldi.

In previsione delle prossime elezioni regionali, assistiamo ad una serrata campagna di buoni propositi e convinti intendimenti sulla necessità di moralizzare la vita politica, iniziando dal ripulire le liste elettorali.


Attendiamo che si stabilisca se un indagato possa essere candidabile ed, eventualmente, se ciò debba essere disciplinato da una legge o dalla buona volontà dei partiti e che si decida dopo quale grado di giudizio un condannato debba essere escluso dall’elettorato passivo.

Questa premessa, la crisi economica e la quotidianità di milioni di famiglie imporrebbero una campagna elettorale improntata alla sobrietà e alla trasparenza. Mentre il dibattito ferve, la campagna incalza, gli aspiranti consiglieri regionali fremono.

A Milano e nell’ hinterland la faccia sorridente di una signora, con la necessità di comunicare il suo trasferimento ad altro schieramento, fin da gennaio, campeggia sui muri e nelle stazioni della metropolitana dove si è dovuta accollare anche i costi dei diritti di affissione. Tra stampa e messa in opera si tratta di qualche decina di migliaia di euro. E, poverina, la campagna deve ancora iniziare.

Per non parlare delle “megacene” di due candidati , una da 7.500 inviati nei padiglioni della Fiera, l’altra con 4.000 commensali in un grande albergo.

Ed allora, proviamo a far di conto.

Per una cena di 7.500 persone, pur con tutti i favori, gli sconti e gli amici su cui può contare il candidato, vogliamo ipotizzare una spesa di 20 euro a coperto? Una cifra irrisoria, certo, ma tanto per stare al gioco.

Vogliamo aggiungere qualche euro per affittare un padiglione della Fiera (anche qui non mancano gli amici, ma qualcosa dobbiamo pur pagare), per la macchina organizzativa e il personale per gestire e disciplinare il flusso dei 7.500 da mettere a tavola? Un impianto di amplificazione: se il candidato non delinea il roseo futuro, a seguito della sua elezione, che senso avrebbe dar da mangiare a 7.500 bocche? Insomma, questa iniziativa è costata almeno 170/180 mila euro! E la campagna ufficiale non è ancora iniziata. Quante bocche sfamerà il nostro benefattore da qui al 27 marzo?

A questi costi vogliamo aggiungere una dotazione minima di materiale per ‘apparire’? 100.000 manifesti, squadre di volontari per l’affissione, 500.000 santini, 200/300.000 depliant; mega poster da 6x3 metri, vele sui camion, camper che girano la città e i mercati e tanto altro ancora. E poi in televisione possiamo non esserci? Spot per gli ultimi quindici giorni e nelle quattro principali emittenti regionali significano altri 100.000 euro; e alla carta stampata non vogliamo elargire qualche soldo? Un paio di mezze pagine e un paio di pagine intere per gli ultimi giorni di campagna elettorale significano altri 35/40.000 euro. Poi abbiamo i giornali d’area, qualche passaggio sul Corriere, sui free press, sui tanti settimanali locali in provincia. Altri 100mila euro.

Fermiamoci qui. Tralasciamo altre cene, aperitivi (molto di moda quest’anno), convegni, centinaia di volontari pagati con rimborsi spese e buoni benzina, le radio e tanto altro ancora. Solo così siamo già arrivati alla modesta cifra di mezzo milione di euro e davanti ci sono ancora trenta giorni pieni di insidie, tentazioni ed obblighi.

In Lombardia una legge prevede un tetto di spesa di circa 55.000 euro a candidato e che ogni candidato debba farsi carico anche di una quota delle spese sostenute dalla lista. Significano circa 15/16.000 euro, al nostro candidato rimangono per la sua campagna circa 40.000 euro.

Ed allora, due domande.

- Esiste una legge che stabilisce un tetto di spesa. Chi ne controlla la sua applicazione? Chi e quando applica le eventuali sanzioni?

- Per concorrere ad un seggio di Consigliere regionale in Lombardia occorre un patrimonio, in mancanza, chi presta o regala questi denari ai candidati e perché?

Ma questo è un altro capitolo, seppur, della stessa storia.