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giovedì 16 dicembre 2010

Intervista a Piero Ostellino del 16.12.10


INTERVISTA A PIERO OSTELLINO

«Berlusconi vada in parlamento e spieghi perché dal 1994 a oggi non è riuscito a fare le riforme che aveva promesso, così come non ci sono riusciti i vari governi di centrosinistra. La crisi è molto più profonda di quanto possa apparire, le corporazioni bloccano il Paese e per affrontarla occorre trasformare radicalmente le istituzioni italiane». Ad affermarlo è Piero Ostellino, editorialista del Corriere della Sera, intervistato da IlSussidiario.net. Per il commentatore «l’Italia è in una situazione disastrosa e l’unica istituzione a dimostrarsi ancora dinamica è la Chiesa. Al contrario, gli scontri di piazza a Roma rivelano che la società italiana è ferma all’epoca fascista: o lo Stato ci garantisce il posto fisso, oppure spacchiamo tutto».


Ostellino, che cosa dovrebbe fare Berlusconi dopo il voto di fiducia di martedì?

Andare in parlamento e spiegare perché non è riuscito a realizzare prima le cose che aveva promesso: ridurre la spesa pubblica e la tassazione, riformare la giustizia, realizzare la rivoluzione liberale insomma.


Quindi la responsabilità di quanto è avvenuto sarebbe di Berlusconi?

Non sto dicendo questo. Nel 1994 lui è arrivato e ha promesso la rivoluzione liberale. Poi è tornato al governo altre due volte, e ogni volta ha riformulato lo stesso impegno. E allora perché non lo mantiene? Ma non è solo un problema del centrodestra. Chiunque sia al governo in Italia non riesce a governare, si tratta quindi di cambiare le istituzioni. Evidentemente se nessuno si pone il problema è perché questa situazione va bene a tutti. E questo vale per il centrosinistra come per Berlusconi, vale per chiunque vada al governo.


La soluzione potrebbe essere un allargamento della maggioranza?

Ammettiamo pure che Berlusconi allarghi la maggioranza all’Udc e recuperi una serie di parlamentari del Fli. Si ricostituisce il centrodestra originario, che finora non è riuscito a fare le riforme. E non si capisce perché dovrebbe riuscirci adesso.


Quali sono i nodi irrisolti della politica italiana?

Gli stessi di tutta l’Europa, Germania esclusa. E’ in crisi lo Stato moderno, lo Stato sociale non regge più. Ci dà troppo rispetto a quello che potrebbe permettersi e ci prende troppo rispetto a quello che gli spetta.


Secondo lei chi ha impedito a Berlusconi di fare le riforme? E’ stato Fini?

Il problema è più profondo. Il Paese è diviso. E chi lo governa non sono le istituzioni, ma le corporazioni che hanno i loro rappresentanti nell’esecutivo e nel parlamento. Andrebbe quindi cambiata la struttura del Paese. Se gli ordini professionali impediscono o rallentano l’accesso al lavoro dei giovani, la soluzione sarebbe molto semplice: si abolisce il valore legale del titolo e a quel punto anche gli ordini professionali non hanno più ragione d’essere. Questa era una riforma semplicissima, perché non è stata fatta?


Forse perché gli ordini professionali hanno impedito che la si facesse…

E allora, centrodestra e centrosinistra, che cosa ci vanno a fare al governo se poi non governano? Se gli esecutivi non hanno questa capacità di direzione, e sono guidati da un burattinaio che li manovra a suo piacimento, allora non siamo più una democrazia liberale.


E chi è questo burattinaio?

Oltre agli ordini professionali, c’è la magistratura, che ormai è una corporazione che pensa solo a se stessa. Eppure i vari governi che si sono succeduti non sono stati in grado di fare una riforma. Ma anche i sindacati e Confindustria. In questi giorni Marchionne ha rotto con Confindustria, affermando che d’ora in poi la Fiat i contratti se li farà da sé. Trovo che abbia pienamente ragione. Se i contratti fossero diversi tra Como e Lecce, dove il costo della vita è molto differente, gli imprenditori delocalizzerebbero in Puglia, e non in Slovenia.


E il burattinaio che manda i black bloc in piazza, chi è?

Chi ci sia dietro non lo so. Quello che ho visto martedì erano dei giovanotti che con le mazze cercavano di distruggere dei bancomat. O questi sono dei delinquenti, e come tali vanno messi in galera, o sono dei cretini e dei menomati psichici. Sono le uniche definizioni per chi crede di andare a fare la rivoluzione distruggendo tutto, e sarebbe ora che qualcuno finalmente lo dicesse. E tutto questo nasce da un grande equivoco.


Quale?

L’equivoco tra liberalismo e pluralismo. Chi governa non è più in grado di fare nulla, se non concordandolo con ogni singolo gruppo o corporazione che viene toccata da quello che il governo fa. Chi era in piazza martedì era contro la legge, e non soltanto perché spaccava tutto, ma per una ragione più profonda. La maggioranza parlamentare ha il diritto di fare delle scelte, come la riforma dell’università, negarlo è opporsi alla nostra Costituzione.


Chi le ricordavano i manifestanti violenti?

Dei giovani fascisti, che pretendono che lo Stato assicuri loro il posto fisso. Mi dispiace, il compito dello Stato non è questo. E la risposta non può essere quindi quella di prendere i bancomat a martellate. Quanto avvenuto martedì dimostra che questo è un Paese fascista e che è rimasto fascista. E questo condannerà l’Italia a diventare il Paraguay d’Europa: un piccolo Paese che non conta niente. E’ dal 1500 che ci stiamo avviando su questa china, era molto meglio quando c’erano i Comuni e le Signorie.


Quale può essere la situazione?

Una forma di governo simile alla quinta Repubblica introdotta in Francia da Charles De Gaulle.


In questo quadro desolante per le istituzioni italiane, come valuta il ruolo della Chiesa?

La Chiesa, pur essendo per ragioni storiche obiettive uno dei poteri più tradizionali, è l’istituzione che ha dimostrato il maggiore dinamismo. Sia quello di Giovanni Paolo II, sia quello di Benedetto XVI sono stati dei pontificati molto dinamici. Basti vedere come è stata ripensata la questione del rapporto tra fede e ragione, a partire dall’apporto di alcuni filosofi come Tommaso d’Aquino. O al modo coraggiosissimo con cui Ratzinger ha posto il problema dei pedofili nella Chiesa. Con un’energia che purtroppo né lo Stato né la politica hanno avuto.

POST inserito da Riccardo Rinaldi

venerdì 12 novembre 2010

IL MONDO DI MARIO PANNUNZIO - ANCONA 23 NOVEMBRE ORE 17,30 AULA DEL RETTORATO - PIAZZA ROMA 22

Il Centro Studi Liberali Benedetto Croce di Ancona, con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Ancona, onorerà la figura  dell’insigne giornalista liberale, Mario Pannunzio, fondatore e direttore del famoso settimanale politico Il Mondo con la presentazione del libro di Pier Franco Quaglieni, dal titolo “Mario Pannunzio: da Longanesi al Mondo”. che verrà presentato a Ancona martedì 23 novembre, alle ore 17,30, presso la sede del Rettorato dell’Università di Ancona in Piazza Roma n. 22.
Pier Franco Quaglieni è autore di molti saggi storici. Insieme ad Arrigo Olivetti e Mario Soldati è stato fondatore del Centro Pannunzio di Torino, di cui è attualmente direttore.
Nato a Lucca nel 1910 ed emigrato a Roma durante l’adolescenza, Mario Pannunzio dopo l'armistizio del '43, partecipò alla resistenza e insieme ad altri amici fondò il Partito Liberale. Nel ‘49 fondò Il Mondo, che s'impose come uno dei giornali più nuovi nel panorama italiano. Nel dicembre del 1955 fu tra i fondatori del Partito radicale, inizialmente denominato Partito Radicale dei Democratici e dei Liberali Italiani, insieme a Alberto Mondadori, Arrigo Olivetti, Marco Pannella, Eugenio Scalfari e Paolo Ungari
Il grande prestigio del “Mondo” spiega il numero e la qualità di collaboratori italiani e stranieri. Un giornale che ha fatto storia, che ha caratterizzato il dibattito politico e culturale con un grande senso della laicità, dando spazio ad opinioni politiche diverse, in un momento, il dopoguerra, che era caratterizzato da difficoltà di dialogo.
Il Mondo" è stato un settimanale di politica e cultura pubblicato a Roma negli anni 1949-66. Fondatore e direttore ne fu Mario Pannunzio che gli conferì una costante linea di impegno civile e di totale indipendenza rispetto al potere politico ed economico. Redattore capo fu Ennio Flaiano.
"Il Mondo" nacque dall'incontro della cultura crociana con quella salveminiana ed einaudiana ed ebbe tra i suoi collaboratori più importanti Ernesto Rossi, Carlo Antoni, Vittorio De Caprariis, Nicolò Carandini, Luigi Salvatorelli, Ugo La Malfa, Arturo Carlo Jemolo, Giovanni Spadolini, Aldo Garosci, Vittorio Gorresio.
L'obiettivo che il giornale cercò di realizzare fu quello di una terza forza liberale, democratica e laica, capace di inserirsi come alternativa ai due grandi blocchi, nati in Italia dalle elezioni del 1948, quello marxista e quello democristiano. L'impegno anticomunista de "Il Mondo" fu esemplare perché condotto in nome della libertà e non della difesa di privilegi economici precostituiti.
A partire dal 1955 Pannunzio organizzò i "Convegni del Mondo" come risposta laica all'arretratezza settaria dei marxisti e alla crisi del centrismo in Italia. Essi affrontarono temi come la lotta ai monopoli, i problemi della scuola, dell'energia elettrica e del nucleare, dei rapporti tra Stato e Chiesa, dell'economia e della borsa, dell'unificazione europea.
"Il Mondo" ebbe notevole importanza soprattutto sul piano culturale, in quanto fu la prima grande rivista di cultura stampata in rotocalco, rivolta quindi ad un pubblico notevolmente più ampio di quello tradizionale. Oltre a Croce, Salvemini ed Einaudi, collaborarono a "Il Mondo" scrittori come Mann ed Orwell, Moravia e Brancati, Soldati e Flaiano, Tobino e Comisso.
Sul versante non marxista e laico della cultura italiana "Il Mondo" rappresentò l'unica voce importante estranea agli schematismi politici e culturali allora predominanti. Il suo antifascismo fu sempre vivo e costante, la sua laicità mai astiosa, il suo fermo anticomunismo mai preconcetto. Fu accusato di essere élitario, espressione di un'aristocrazia intellettuale refrattaria alle grandi masse. E' tuttavia certo che "Il Mondo" esercitò un'influenza di gran lunga superiore alla sua tiratura.
Edito inizialmente da Gianni Mazzocchi, ebbe negli ultimi dieci anni di vita come editori l'industriale Arrigo Olivetti e l'ambasciatore Nicolò Carandini che parteciparono direttamente alla vicenda politica del giornale. Pannunzio non fu solo il direttore, ma il vero ispiratore del settimanale che curava con attenzione artigianale in tutti i suoi aspetti: leggeva ogni articolo, faceva i titoli e le didascalie, sceglieva le fotografie, impaginava personalmente. Soprattutto suggeriva i temi da trattare ai molti collaboratori, in quanto egli non firmò mai nessun articolo anticipando il ruolo del moderno direttore di giornale. Sotto il profilo grafico il giornale si presentava con una eleganza tutta longanesiana, ma c'erano anche un rigore ed uno stile che superavano il giornalismo di Longanesi, di cui pure Pannunzio aveva subito il fascino.

venerdì 27 agosto 2010

ATTIVARE I CITTADINI - Lettera al Direttore del Corriere Adriatico

Caro Direttore,


ho letto un interessante servizio apparso sul Corriere Adriatico di Lunedì nella Cronaca di Ancona che documentava quello stato di trascuratezza che da tempo appare evidente a quei cittadini che frequentano i parchi anconetani. Da qui prendo spunto per diverse considerazioni:

- Con l’apertura del Parco del Cardeto che si aggiunge al parco di Posatora, al recupero del parco della Cittadella e diverse altre aree verdi amministrate dal Comune di Ancona, la quantità di spazi da gestire è sicuramente aumentata di molto

- curare un parco è cosa che richiede un’attenzione quasi quotidiana ed è attività costosa.

- L’amministrazione comunale non dispone delle risorse sufficienti per gestire questi parchi garantendo uno standard qualitativo di eccellenza (non mi interessa in questa sede sapere se le risorse finanziare mancano perché gestite male o per oggettiva difficoltà)

- I Cittadini che frequentano i Parchi o semplicemente hanno dei vantaggi dalla loro presenza perché residenti nelle loro prossimità non sono coinvolti in alcun modo nel mantenimento del decoro, anzi, possono essere gli attori del loro decadimento utilizzandoli a volte come pattumiere o come aree di servizio per i bisogni dei loro animali domestici.

Il risultato di questo combinato disposto è che tali aree rischiano di diventare la cartina di tornasole di una città (istituzioni e cittadinanza) incapace di affrontare adeguatamente le sfide che il presente e il futuro ci stanno mettendo di fronte. Una città che, nonostante i nuovi parchi, risulta essere la terza città più inquinata d’Italia e quindi d’Europa.

Uno studioso dell’Università di Harvard, Banfield, ha definito la mancanza di senso civico come il problema di fondo di alcune aree sottosviluppate dell’Italia. Una delle caratteristiche salienti del sottosviluppo è proprio la mancanza di senso civico, quindi la scarsa attenzione dei cittadini alla qualità dei luoghi pubblici considerati come esterni ai propri interessi “familiari” e quindi, semmai, da sfruttare a spese degli altri. Questo comportamento, facilmente imitabile, porta a una qualità della vita pubblica e sociale sempre più bassa, quindi a costi sempre più elevati, diventando una delle cause principali del sottosviluppo economico.

Per cambiare la realtà che ci circonda bisogna cambiare noi stessi e non aspettare che altri, lo Stato, il Comune o, perché no, il Superenalotto risolvano i nostri problemi.

Credo che si possa partire da cose molto semplici: costituiamo dei comitati di quartiere fondati su base volontaria, che abbiano l’onere e l’onore di mantenere e vigilare sui beni pubblici, a partire dai parchi della città di loro competenza. Questi comitati potrebbero utilizzare manodopera volontaria, raccogliere fondi tra i cittadini, istituire dei premi di benemerenza per quelli particolarmente virtuosi. Il Comune potrebbe istituire un premio al comitato che ha lavorato meglio nell’anno e magari prevedere degli incentivi fiscali per chi partecipa fattivamente a queste gestioni. L’amministrazione Comunale e il Sindaco Gramillano riflettano su queste cose, inizino a chiedere con umiltà la collaborazione dei propri cittadini e a premiare i meritevoli. Attiviamo la cittadinanza e iniziamo a pensare che Ancona può diventare un modello per l’Italia.

Cordiali Saluti
Claudio Ferretti

sabato 14 agosto 2010

CROCE, gli AUSTRIACI ed il LIBERALISMO

In un interessante articolo apparso, col medesimo titolo in “MondOperaio”, novembre-dicembre 2003, n. 6, pp. 114-25 il professor Raimondo Cubeddu, analizza la posizione di Bendetto Croce rispetto a quella della Scuola Austriaca. Da questa analisi deriva una critica molto forte delle posizioni di Croce e una conseguenza, la morte del liberalismo in Italia: Scrive Cubeddu: "Ciò detto, se per Croce l'oggetto della scienza economica sono le azioni volontarie, per Menger l'oggetto delle scienze sociali teoriche (comprensive della 'scienza economica esatta') sono le conseguenze inintenzionali che seguono alle azioni umane intenzionali. La tesi 'austriaca' può così può essere d'aiuto per capire come mai, partendo dall'intenzione di provocare la morte del marxismo teorico, in Italia si sia finito, tagliandone le radici, per provocare invece quella del liberalismo."

Quindi le conclusioni del Prof. Cubeddu: ....Così esposta, ovvero con le parole di Menger, mi chiedo se veramente la critica di Croce e la sua interpretazione della nascita della scienza economica possano valere anche per gli 'Austriaci' dato che, nella loro concezione dell'attività economica e delle istituzioni a cui essa dà vita, non vi sono elementi che possono configurarla come una teoria utilitaristica ed edonistica se non nel significato che Croce dava a quei concetti.

Certamente Croce era un filosofo originale, ma resta il dubbio che quel che può valere per la teoria dell'azione e del valore della scuola economica classica, ed anche di Gossen e di Jevons, non possa essere automaticamente esteso alla Scuola Austriaca e alla sua teoria dell'azione umana, dei valori soggettivi e delle istituzioni sociali. Infatti, la 'teoria dei valori soggettivi', non è altro se non una teoria della conoscenza e della scelta in regime di scarsità, che si fonda sulla radicale contestazione della teoria economica classica e del suo
utilitaristico, onnisciente, ed in definitiva famigerato homo oeconomicus che Hayek definisce un prodotto della teoria economica classica estraneo a quella 'austriaca': una «nostra [degli economisti] vergogna di famiglia che abbiamo esorcizzato con la preghiera e il digiuno».
Sempre nella prospettiva 'austriaca', viene perciò da chiedersi se diritto, etica e stato, che sono il risultato 'irriflesso' degli scambi e dei 'naturali' tentativi individuali di assicurarsi una sopravvivenza, possano mai disporre della conoscenza necessaria per correggere il mercato. Ovvero, in termini neo-istituzionalistici, se possa mai funzionare, e con quali 'costi di transazione', un sistema edonistico ed utilitaristico nella sfera del
soddisfacimento dei bisogni, ed 'etico' (ma esattamente cosa vuol dire?) nella sfera dei comportamenti politici. Quali i costi della sovrapposizione, che in questo caso appare forzata, dei due sistemi?

Non mi dilungo oltre, ma spero che possa essere chiaro perché, uno che ha studiato due soluzioni 'integrate' (teoria dell'azione in condizioni di scarsità, soddisfacimento dei bisogni, teoria delle istituzioni e teoria politica) non possa più ritenere soddisfacente e feconda la soluzione crociana la quale presuppone che nel secondo momento (eticopolitico) gli stessi individui abbiano a disposizione una conoscenza maggiore di quella di cui dispongono nel primo (soddisfacimento dei bisogni) quando temporalmente non è possibile distinguere i due momenti.

La mia convinzione, in definitiva, è
1) che la recezione della confusione che Pantaleoni fa in quegli anni tra Jevons e Menger si sia trasmessa a Croce il quale ne deduce il carattere edonistico, utilitaristico, atomistico e quantitativo di tutta la scienza economica;
2) che non è un caso se a rivitalizzare il liberalismo sia stata proprio quella 'Scuola Austriaca' che era già uscita dalle secche nella quale lo avevano condotto da una parte la scuola classica con la sua teoria dell'azione e del valore, e dall'altra parte Croce col suo tentativo di superare tale impasse distinguendo tra liberismo e liberalismo;
3) che oggi il maggior difetto che può essere individuato nel liberalismo di Croce è:
a) di non aver una teoria dell'azione umana e delle istituzioni;
b) di non avere una teoria dei diritti individuali;
c) di fondarsi su una discutibile e discussa interpretazione della nascita della scienza economica e della tradizione individualistica e liberale (si pensi alla questione del diritto naturale), da cui non poteva nascere che una parimenti discutibile teoria del liberalismo;
d) di non contenere, come sostiene Sebastiano Maffettone, una "teoria normativa della politica".



sabato 17 luglio 2010

Intervista al nostro membro d'onore Piero Ostellino del 15.07.10


INT.

Piero Ostellino

giovedì 15 luglio 2010

Nella serata di ieri il sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino, coinvolto nell’inchiesta sull’eolico, si è dimesso. È mio interesse tutelare il governo, ha detto. Diventa così ancora più aggrovigliato il momento di crisi che attraversano il governo e il partito di maggioranza: entrambi minati dalle indagini e dalle correnti interne, mentre appare in difficoltà la leadership di Berlusconi, che non riesce ad avere ragione di uno scenario sempre più frammentato e quanto mai incerto. Parla Piero Ostellino, editorialista del Corriere.



Prima Scajola, poi Brancher, ieri Cosentino. Le indagini puntano a isolare sempre di più Berlusconi?



Non credo. Sono casi giudiziari specifici che attengono a vicende complesse ma individuali. È evidente che siamo entrati in una fase segnata apparentemente dal declino di Berlusconi e dalla corsa alla successione. Anche se Berlusconi, a mio parere, non ha nulla da temere dai sommovimenti interni al suo partito. In realtà lo scacco del premier è più profondo e sta nell’aver ceduto alle logiche del paese corporativo.



In ogni caso il premier appare in difficoltà e non sembra capace di costruire una sintesi politica. questa crisi è causa o effetto dell’appannamento di leadership di Berlusconi?



Difficile dirlo. In realtà Berlusconi non è mai stato in grado di pervenire ad una sintesi, perché non ne ha la cultura politica. È uno straordinario uomo d’affari che ha governato e governa il paese con la sua leadership carismatica. Sul resto la mia posizione è nota: risultati parziali ci sono stati, ma Berlusconi non ha saputo realizzare la rivoluzione liberale, basata innanzitutto sulla riduzione dell’eccessiva pressione fiscale, che aveva promesso. A questo sostanziale fallimento ha tentato di sopperire con una politica dell’annuncio.



Lei ha scritto di recente che il paese è spaccato tra un’Italia progressista che invoca lo stato di polizia (“intercettateci tutti”) e una moderata che confida nel demiurgo. Se la rivoluzione liberale di Berlusconi è archiviata, cosa c’è al suo posto?



Il paese di sempre: lo stesso paese che nel 1943, all’atto della sfiducia di Mussolini, era in gran parte fascista e che il giorno dopo si ritrovò in gran parte comunista. Un paese che ha cambiato la casacca e il colore della camicia, ma che sotto è rimasto in gran parte quello di prima. Poco importa che si dichiari laico o democratico antifascista: il nostro resta tutto sommato un paese fascista.



E quale sarebbe la caratteristica del nostro fascismo?

Il fatto che gli italiani non credono nelle libertà e nelle conseguenti responsabilità. Noi non siamo cittadini, la nostra massima ambizione è quella di essere governati come sudditi. Basti pensare all’enormità di divieti e alla violazione di diritti individuali che informano la nostra vita pubblica, dall’inversione dell’onere della prova a carico dell’accusato in materia fiscale all’esecutorietà della sanzione amministrativa, e tutto senza che noi battiamo ciglio. La crisi del berlusconismo è una delle tanti disillusioni di questo paese: il demiurgo doveva risolvere i problemi ma non l’ha fatto, e per una ragione molto semplice e cioè che il paese, in fondo, nemmeno voleva che fossero risolti. Berlusconi stesso si è prontamente adeguato al paese: lo rispecchia, ed è questa la ragione del suo successo.



Esiste però una stampa ferocemente antiberlusconiana.



Ma questa stampa alimenta un’antipolitica paradossalmente funzionale alla perpetuazione di questo fascismo. Si potrebbe ritenere che tenga vivo l’«antifascismo», ma non si ricorderà mai abbastanza che l’antifascismo ideologico è determinato interamente dalla sua opposizione al fascismo.



E la sinistra?



L’unica cosa che la tiene in piedi è l’antiberlusconismo: il gridare al tiranno e all’attentato contro la libertà di informazione. La sinistra non ha identità, non ha idee, non sa nemmeno lei stessa cosa vorrebbe. In realtà essa non c’è più: è scomparsa. I giornali non inducono a riflettere su questo stato di cose. Sono pro o contro Berlusconi, ma chi parla delle decisioni illiberali che mortificano il cittadino? Chi ha parlato a fondo delle ultime leggi approvate dal parlamento in materia fiscale?



A proposito del caos attuale lei ha scritto di una «sindrome di Weimar» e dei suoi potenziali rischi. Quali sono?



Di fronte ad una politica che non riesce più ad avere un ruolo di direzione, di fronte al fatto che sono le corporazioni che governano il paese, e che la stessa funzione pubblica è diventata una corporazione, come si vede dal conflitto tra il potere centrale e le regioni, sale nell’opinione pubblica il desiderio di una tecnocrazia che decida sulla base di una visione scientifica, e perciò astratta, della società. Il primo atto di una tecnocrazia è fare a meno della sovranità popolare.



Non potrebbero essere i tecnocrati a risolvere finalmente i problemi del paese?

No, perché la tecnocrazia attuerebbe l’ennesimo tentativo di applicare alla realtà sociale una formula razionalistica, mentre la risoluzione dei problemi può scaturire solo dalla libertà. Se non si ha fede nella capacità degli uomini di decidere individualmente e soggettivamente, ciascuno secondo i propri interessi, le proprie preferenze, la propria concretezza, il proprio stile di vita e la propria esigenza di felicità, resta solo il razionalismo e quindi l’oppressione. Ci devono essere meno regole possibili: solo quelle che ci impediscono, nel perseguire il nostro ideale di felicità, di arrecare un danno agli altri.



Ha ragione o no Berlusconi nello stigmatizzare un’offensiva «giacobina e giustizialista»?



Che ci sia una parte minoritaria, sottolineo minoritaria, della magistratura che persegue un disegno egemonico animata da una visione provvidenzialistica della giustizia, è un fatto acquisito per chi è libero da preconcetti. Oggi certi magistrati sono alla ricerca del peccato, non del reato. Cosa vuol dire che l’accusato è «reticente nell’accettare i fondamenti dell’accusa»? È un suo diritto rifiutarli, perché mai dovrebbe accettarli? Il magistrato deve condannare i reati sulla base del codice, non sulla base della sua concezione di società. In questo Berlusconi ha ragione, c’è una magistratura giacobina. Ma il dramma è che questo riguarda molto più il cittadino comune che non Berlusconi e i suoi problemi con la giustizia.



Prima lei ha detto che Berlusconi ha ceduto alle logiche corporative. Cosa intende?



In Italia il potere politico, per secoli comunale, infine diventato statuale con l’unità d’Italia, ha sempre svolto un ruolo di mediazione tra le corporazioni. Questa mediazione è storicamente consistita nel distribuire le risorse esistenti ai vari partecipanti, secondo criteri soggettivi. La crisi economica però ha privato il potere di risorse da ridistribuire ed esso è diventato una corporazione in guerra con le altre.



Questo che c’entra con la leadership di Berlusconi?

C’entra per il fatto che la crisi attuale non riguarda solo la politica, il caos dentro il Pdl per intenderci: essa riflette quello che sta accadendo nella società italiana. La sua natura corporativa è esplosa e si ripercuote a livello politico, frammentandolo. Il potere politico è anch’esso alla ricerca di risorse e lo scontro in atto con le regioni può essere letto così: corporazioni locali che si ribellano alla corporazione centrale. Con l’effetto di acuire la conflittualità sociale, ampliandola. Attualmente Berlusconi è debole perché è prigioniero delle corporazioni organizzate, oltre che di se stesso.



In questa guerra corporativa qual è il ruolo della Lega?



La Lega è l’unica forza ad aver capito realmente che il corporativismo è la vera essenza della realtà italiana, e la sua vocazione storica è quella di tradurre il corporativismo localistico in una domanda di «secessione democratica». Il meridionalismo separatista pretendeva che lo stato ripagasse il sud per i danni che esso aveva ricevuto dall’unificazione. Lo stesso sta ora avvenendo al nord, in senso opposto: il corporativismo giustifica l’esigenza di secessione, proprio perché la miglior tutela avviene a livello locale. Tradotto: non possiamo più sostenere una parte del paese a nostre spese.



Ma il federalismo non può sancire a livello costituzionale uno stato di cose più equilibrato?



Sarebbe la sua funzione storica, ma scattano a questo punto le tare materiali della realtà italiana: ci sono regioni del sud che non essendo in grado di amministrarsi non si assumeranno mai la responsabilità del loro autogoverno, e pretenderanno di essere sovvenzionate dal potere centrale. E il nord questo non potrà accettarlo.



Torniamo a Berlusconi. Fini può prendere il suo posto?



No, se lo tolga dalla testa. Al momento attuale non c’è nessuno che possa prendere il posto di Berlusconi, ammesso che egli non faccia grosse sciocchezze e rimanga sul filo della ragionevolezza. Berlusconi non ha successori. Tantomeno può succedergli un ex missino, per quanto ravveduto. Può accadere che un ex comunista arrivi alla presidenza del Consiglio, ma è destinato a starci poco, perché l’Italia non ha nostalgia degli eredi delle ideologie totalitarie del ’900. Ciò non toglie che abbia nostalgia per l’ordine e la disciplina, tratti caratterizzanti del fascismo. Diciamo meglio: l’Italia è fascista indipendentemente dalla nostalgia per i leader fascisti.



Per fortuna che in Italia c'è ancora qualcuno che dice qualcosa di autenticamente liberale.
Commento finale e inserimento dell'articolo da parte di Riccardo Rinaldi

giovedì 17 giugno 2010

Intervista Piero Ostellino 17 giugno 2010


SCENARIO/ Ostellino: non bastano i tagli a salvarci dagli errori di Togliatti e Dossetti

INT.

Piero Ostellino

giovedì 17 giugno 2010

«Alla base delle principali questioni che stanno interrogando il Paese in questo particolare momento storico c’è, a mio parere, un problema culturale, prima ancora che politico o economico». È questo il filo rosso, secondo Piero Ostellino, che lega la crisi economica alle affannose manovre per far tornare i conti e per condividere tagli e sacrifici, fino ad arrivare alla complicata trattativa della Fiat a Pomigliano. «Paghiamo il prezzo di una cultura di matrice cattolico-dossettiana e comunista alla base della nostra Costituzione, liquidativa delle libertà economiche, fortemente anti-individualistica e illiberale. Dietro una parvenza di solidarismo si nasconde però una profonda vocazione totalitaria tipica di quella cultura d’origine. I nostri guai, a mio parere, nascono da lì».



Il Presidente del Consiglio poco tempo fa ha definito la Costituzione “un inferno”. Non rischia di diventare il capro espiatorio dei problemi del Paese?



Non penso proprio. Dopo averla studiata a fondo sono arrivato a una conclusione: è una Costituzione programmatica, tipica delle costituzioni totalitarie del ‘900. A differenza di quelle procedurali e liberali, non si limita a fissare le regole del gioco, ma decide pesantemente come il gioco si debba svolgere.



È giunto il momento di mettergli mano o è ancora “intoccabile”?



La Costituzione non dovrebbe esserlo per definizione. Thomas Jefferson diceva che ogni generazione ha il diritto di cambiarla. Nel nostro Paese, invece, viene considerata intoccabile da tutti quelli che campano dello status quo: sindacati che non imparano dalla storia, docenti di diritto costituzionale che hanno costruito la loro fortuna su questa presunta “intoccabilità”, politici e manager con una spiccata vocazione autoritaria che credono in una società eterodiretta, senza alcuno spazio per la libertà individuale. In poche parole, quanto di peggio esista nella cultura politica di questo Paese. Chiamiamoli con il loro nome: reazionari contrari alle libertà individuali, legati all’ancien régime e quindi anacronistici.



Alcuni sindacati, a cui ha fatto riferimento, pongono un problema di incostituzionalità anche riguardo all’accordo proposto dalla Fiat a Pomigliano

Bisognerebbe capire, a questo punto, se esistono davvero i termini d’incostituzionalità, d’altra parte potremmo iniziare ad ammettere che è proprio la Costituzione a lasciare spazio a molte ambiguità. Come dicevo prima, è figlia del solidarismo cattolico dei Dossetti, dei Fanfani e dei comunisti alla Togliatti, con l’aggravante di essere stata scritta quando ancora si guardava al comunismo come al superamento del capitalismo. Non stiamo a dilungarci su come sia andata a finire, il problema è che siamo ancora fermi lì, a una Carta che da un lato riconosce alcuni principi liberali, dall’altra li condiziona alle astrazioni ideologiche tipiche di quel mondo e di quel tempo.



Tornando all’accordo, secondo Tito Boeri è inevitabile e necessario, ma rende ancora più indispensabile una seria riforma delle regole di contrattazione e di rappresentanza sindacale. Lei è d’accordo?



È un problema da risolvere, ma in un secondo momento. Prima di tutto bisogna porre i lavoratori di fronte al nodo vero: il rapporto di causa ed effetto tra costi e ricavi in un processo capitalistico. Se questo non si comprende si confondono ruoli e funzioni, doveri e diritti. Il movimento operaio e la sinistra dovrebbero iniziare a fare i conti con la propria cultura politica o almeno con l’osservazione dei dati e della realtà.



Cosa intende?



Tutti sanno che la produttività degli stabilimenti Fiat in Italia è più bassa rispetto a quella di Polonia o Brasile. Nel nostro Paese, infatti, si producono meno automobili con un numero di lavoratori maggiore. Se non si capisce il nesso elementare tra costi e ricavi non si può capire che siamo davanti a un bivio: o si alza la produttività o la Fiat sarà costretta a spostare lo stabilimento. Ecco perché la proposta dell’azienda torinese, a mio parere, è ragionevole. Purtroppo però la Fiom paga lo scotto di questo ritardo culturale e non sembra aver compreso ancora il processo di accumulazione capitalistico.



A sinistra il dibattito si è aperto, secondo Bertinotti la sinistra stessa, moderata o radicale che sia, sarebbe “morta”, lontana dalla Fiom e da Pomigliano e forse troppo impegnata con i post-it contro il ddl intercettazioni

È la constatazione di uno stato di smarrimento che la sinistra italiana vive da quando ha perso il proprio punto di riferimento culturale, la rivoluzione. Dopo aver capito che non è un obiettivo perseguibile in un paese occidentale, democratico e di mercato ha perso anche il suo riferimento storico, l’Unione sovietica, l’incarnazione del “successo” storico della rivoluzione. La crisi della socialdemocrazia non gli ha permesso poi di cambiare pelle. Il sistema era ormai malato di un welfare portato alle estreme conseguenze, di un eccesso di tassazione e di spesa pubblica.

Ad oggi, la sinistra non ha un referente culturale, è incapace di elaborare una nuova cultura politica autonoma e sembra ancora vittima del suo vizio d’origine, del suo peccato originale.



Quale?



Il fatto di essere fondata su posizioni massimaliste come la palingenesi rivoluzionaria, il cambiamento della società, l’illusione dell’uomo etico, buono e disinteressato, che nella realtà però non esiste. Il ritardo è notevole dato che nel 1651 se n’era già accorto Hobbes, che nel “Leviatano” risolveva l’homo homini lupus affidando il comando al despota, mentre dopo di lui Locke sceglieva la strada del consenso e del processo democratico.



A proposito della crisi di un modello esasperato di welfare a cui faceva riferimento prima, l’Europa oggi chiede a tutti gli stati delle pesanti manovre correttive per evitare il fallimento…



Lo stato sociale, che è la forma dello stato moderno, è entrato in crisi: da un lato spende più di quello che potrebbe, dall’altro impone una tassazione al di là di ciò che dovrebbe, riducendo così la libertà dei cittadini. È interessante però notare che ancora una volta per risolvere i problemi che abbiamo ignorato per anni siamo costretti ad aggrapparci a un vincolo esterno. Un modo di procedere che però non è esente da rischi.



A cosa si riferisce?

L’Europa ha dimostrato di funzionare se gli stati riescono a risolvere i propri problemi. Se lo stato moderno entra però in una crisi così profonda, il rischio di affossare l’Europa c’è, soprattutto se ci accorgiamo di averla costruita con i difetti dello stato moderno stesso: centralismo, burocrazia e verticismo.



A partire da queste premesse che scenari si aprono secondo lei?



Gli stati nazionali usciranno dalla crisi con gravi difficoltà, mentre l’illusione di uno stato europeo sovranazionale in grado di difenderci da un mondo dove non si fanno più guerre per conquistare territori e fare affari, ma dove la finanza scavalca bellamente i confini nazionali, si è rivelata illusoria.



Secondo lei, come sta rispondendo l’Italia alle richieste dell’Europa?



Quando si operano tagli indiscriminati, così come quando si elargiscono sussidi a pioggia non si realizza giustizia sociale, ma si penalizzano le regioni virtuose. Ecco perché condivido la protesta dei governatori. Io sarei addirittura più deciso di loro: le regioni non virtuose, quelle che, per intenderci, non sono nemmeno in grado di fornire il bilancio della sanità, devono essere commissariate. Lo stato centrale su questo deve essere inflessibile all’interno di un quadro di sussidiarietà e federalismo fiscale. Non può esserci libertà senza responsabilità.



Da ultimo, lei ha sottolineato molti aspetti di una crisi culturale di fondo. Inevitabile chiederle se secondo lei saremo in grado di uscirne e come.



Confesso di non essere molto ottimista. Per uscire da questa crisi servirebbe una “rivoluzione culturale”. Le giovani generazioni non hanno mai conosciuto il liberalismo, la democrazia liberale, il merito. Il riscatto può partire da loro e passerà sicuramente dalla scuola. Per ora ognuno sembra portare l’acqua al suo mulino sulla base di un’idea di democrazia del tutto personale o, al massimo, corporativa

Non poteva mancare questa intervista del nostro Membro d'Onore Piero Ostellino nel nostro BLOG.
Per noi del Centro Studi Liberali B. Croce ogni volta che lui rilascia una intervista è come quando la luce del faro girando a 360 gradi ci colpisce negli occhi.
Articolo riportato da Riccardo Rinaldi

venerdì 4 giugno 2010

L'ITALIA FATTA IN CASA - di Alberto Alesina e Andrea Ichino

Comunicato Stampa.


Lunedì 21 giugno 2010 alle ore 17,30 ad Ancona presso la Loggia dei Mercanti avrà luogo una tavola rotonda con Andrea Ichino, Maria Paola Merloni ed Emmanuele Pavolini sul libro: L’Italia fatta in casa. Indagine sulla vera ricchezza degli italiani, scritto da Alberto Alesina (Harvard University) e Andrea Ichino (Università di Bologna) e pubblicato da Mondadori.

L’evento è organizzato dal Centro Studi liberali Benedetto Croce di Ancona con il patrocinio del Comune di Ancona, in collaborazione con il C.I.F. – Centro Italiano Femminile e con il contributo di Auto 90.

Stando alle statistiche Il prodotto interno lordo pro capite è più basso confrontato con quello di altri paesi come USA, Norvegia e Spagna. Basta questo per rilevare che la situazione dell’Italia è peggiore? Da cosa è composta la qualità della vita made in Italy, che pure risulta comunque essere uno standard appetibile in tutto il mondo?

In Italia c’è ancora disparità tra uomini e donne per la divisione del lavoro, i salari e le pensioni, le possibilità di carriera, secondo il modello tradizionale “Uomini in ufficio e donne a casa”. Cosa vogliono davvero le italiane e gli italiani? Quanti di loro sono disposti al cambiamento per riportare la situazione in equilibrio?

Quanto le istituzioni in Italia modificano la società e quanto invece la società determina l’operato delle istituzioni? La creazione del bene pubblico è ancora ostacolata come un tempo dal modello di sviluppo familiare, basato sulla fiducia nel privato e la diffidenza ad intraprendere con gli estranei?

Gli autori del libro analizzano il ruolo della famiglia nel sistema produttivo italiano nell’ambito del mercato del lavoro, del sistema universitario, della struttura del welfare state, della governance nelle aziende considerando anche la condizione della donna, dei bambini e degli anziani, il senso civico, la fiducia nelle regole e nelle istituzioni e le differenze di sviluppo tra nord e sud.

Un’indagine puntuale e un dibattito serviranno a far luce sulla vera ricchezza degli italiani: la produzione italiana non rilevata dalle statistiche e la mancata produzione causata da modelli di sviluppo privatistici ereditati dal passato.

Ancona, giugno 2010.

IL DIRITTO COME PRETESA PER BRUNO LEONI

Giovedì scorso, durante la riunione del direttivo aperto, ho promesso a chi mi sedeva accanto che avrei messo sul blog una breve trattazione del concetto di diritto come pretesa che è forse l'aspetto più conosciuto del pensiero di Bruno Leoni.


Va detto anzitutto che egli sviluppa questo concetto lungo tutta la sua vita di studioso della materia e quindi le prime bozze del concetto sono già presenti, in forma assai primitiva, anche nei suoi primi scritti.

La materia è molto complessa perchè abbraccia tutto l'arco di scienze di cui Leoni si è occupato, ma volendo limitarsi all'essenziale va riferito che Leoni fonda il suo pensiero su due fonti primarie:

Quella sociologica che gli veniva da una ampia condivisione dei lavori di Weber e di Ehrlich e quella economica basata sulla più volte ribadita adesione alla nota Scuola Austriaca, vale a dire, per intenderci quella di Mises e di Hayek.

Leoni contrappone alla teoria normativistica, allora predominante in Italia e nel continente europeo, la cui fondazione può essere attribuita a Kelsen, il recupero del cosiddetto diritto naturale con l'aggiunta di proprie considerazioni che lo porteranno appunto a definirlo diritto come pretesa.

Egli obietta che la teoria normativistica non tiene conto che l'osservanza o meno di una norma è qualcosa che accade nella realtà, ossia è un “insieme di eventi psicologici a cui corrispondono comportamenti osservabili, e non semplicemente una proposizione o un insieme di proposizioni linguistiche”.

Questo significa che le norme diventano espressioni di usi, ed è quindi possibile verificare la loro corrispondenza, o dissonanza, rispetto a questi usi.

Può cioè accadere che esista un diritto"vivente" contrapposto al diritto "vigente" e che quindi gli schemi di previsione delle azioni umane non corrispondono a quelli previsti dalle leggi.

Ciò non toglie che egli si preoccupi di dare valore oggettivo e universale alle conclusioni alle quali approda.

Egli obietta che comportamenti effettivi degli individui sono orientati secondo determinati criteri presenti alla mente degli individui: in particolare secondo determinati schemi previsivi e secondo determinate pretese che, come tali, possono considerarsi eventi psicologici.

C'è un passo degli scritti di Leoni che meglio di tutti chiarisce il punto di vista:

“riassumendo, “sociologia comprendente” nel senso weberiano vuol dire spiegazione delle azioni umane in base ad un’interpretazione che il significato è quello dato dalla persona che le compie, quindi in base ad un accertamento degli scopi che questa persona si propone nell’agire. Questo accertamento implica la considerazione di certe aspettative che sono riconnesse a questi scopi. Se io mi propongo lo scopo di comprare una cosa, io mi attendo e quindi pretendo che ci sia chi me la vende, o meglio che chi la vende la venda a me. Quindi questi scopi sono riconnessi con aspettative. […]

Il residuo insolubile dal quale parte la sociologia comprendente è l'individuo. In altri termini il canone metodologico fondamentale della sociologia comprendente di Weber è l'individualismo inteso come procedimento mediante il quale tutti gli eventi si spiegano tentando di accertare i significati che determinati singoli individui agenti attribuiscono alle loro azioni”.

Come si vede si tratta di un concetto assai simile a quello elaborato dalla Scuola Austriaca, in particolare alla teoria dell'individualismo e alle sue implicazioni in tutte le scienze umane.

Il primo importante rilievo di Leoni, connesso alla già citata critica del normativismo, è l'individuare nel diritto un importante elemento di soggettività, riconducibile al fatto che chi rivendica un diritto pretende anzitutto il verificarsi di un comportamento altrui.

Un passo in cui egli chiarisce meglio è il seguente:

“il concetto cui sembra riducibile il termine diritto, così come viene usato nel linguaggio ordinario, è quello che potrebbe definirsi la richiesta di un comportamento altrui corrispondente ad un nostro interesse […] e considerato inoltre come probabile – o comunque più probabile di altri – nell’ambito di convivenza organizzata cui apparteniamo entrambi (noi e la persona il cui comportamento è oggetto di pretesa), nonché in ogni caso come determinabile mediante un nostro intervento (presso tale persona o presso altre) in base ad un potere di cui noi, che formuliamo la richiesta, ci consideriamo dotati”

E' dunque per Leoni la pretesa che fa sì che un obbligo sia giuridico e gli obblighi giuridici possono nascere solo in corrispondenza di pretese.

Leoni quindi individua i quattro elementi che una pretesa deve annoverare:

La pretesa deve contenere un favorevole giudizio di probabilità.

Oggetto di pretesa saranno eventi umani non necessari nè impossibili (poichè sarebbero naturalmente o inutili o impossibili da pretendere).

Su questo tema Leoni sfrutta i molteplici suoi studi giovanili su Pascal, Bernouilli e Leibniz e sul tentativo di sottoporre il comportamento umano a leggi probabilistiche prettamente matematiche.

Il secondo elemento da considerare è l'intervento, o meglio la “disposizione della persona che pretende ad ottenere con un qualche tipo di intervento il comportamento preteso, qualora esso non si verifichi spontaneamente”.

Il terzo elemento è in realtà una specificazione del secondo, e consiste nel potere di intervento.

Il quarto elemento costitutivo della pretesa è l'interesse.

Si ha una pretesa solo nel momento in cui qualcuno ritiene utile il verificarsi di un certo comportamento e dunque lo pretende.

Leoni però chiarisce che fin qui ci troviamo nel campo della pretesa di tipo soggettivo.

Affinchè essa diventi pretesa giuridica è necessario trasformarla in forma oggettiva o meglio che divenga probabilisticamente oggettiva.

Il primo requisito è quindi che ad essa faccia riscontro una probabilità di tipo oggettivo, cioè che essa abbia alta probabilità oggettivamente di riuscita indipendentemente da quello che pensa il richiedente.

Per fare un esempio anche la pretesa di un rapinatore ha una forte probabilità di essere soddisfatta (per il rapinatore), ma non per questo è giuridica.

Deve esserci un alto consenso comunitario a renderla effettiva.

Il secondo requisito è quindi che quella richiesta venga avanzata in un certo ambito ben prestabilito che la renda realizzabile alla luce del contesto specifico.

Questi sono i passaggi che fanno diventare la pretesa un diritto oggettivo e quindi valutabile a posteriori tanto che il Leoni definisce il diritto come un fenomeno storico.

Come dicevo in apertura il concetto è complesso ed è fondato su un ragionamento per gradi che Leoni sviluppa in tutti i suoi lavori e che vanno a sfociare nei principi che ho tentato maldestramente di riassumere.

Purtroppo un limite di Bruno Leoni è quello che per capirlo ed apprezzarlo davvero è necessario possedere una conoscenza completa, o quasi, delle sue opere e che la sua tragica scomparsa a soli 54 anni non gli hanno consentito probabilmente di raccogliere lui in qualche opera omnia il frutto delle sue decennali meditazioni.

Anche il suo libro più famoso "Freedom and the laws" non consente di ridurre schematicamente il suo eterodiretto pensiero.

Scritto da Riccardo Rinaldi

mercoledì 12 maggio 2010

Percorsi Liberali: IL Prof. ICHINO presenta L'ITALIA FATTA IN CASA - Ancona, 21 giugno 2010 ore 17,30

ANDREA ICHINO Professore ordinario all’Università di Bologna presenta il libro "L’ITALIA FATTA IN CASA Indagine sulla vera ricchezza degli italiani"
Interverranno:

MARIA PAOLA MERLONI Deputato Parlamento Italiano


EMMANUELE PAVOLINI Professore di sociologia all’Università di Macerata

Lunedì 21 giugno 2010 alle ore ore 17,30 presso il Rettorato dell’Universita’ Politecnica delle Marche
Piazza Roma 22  ANCONA

sabato 1 maggio 2010

LETTURE DIALOGICHE SU DEMOCRAZIA, LIBERALISMO, LIBERTA' DI INFORMAZIONE

Il Centro Studi Liberali B. Croce di Ancona ha organizzato una serie di incontri con gli studenti delle scuole superiori aventi per oggetto letture dialogiche sulla democrazia, il liberalismo e la libertà di informazione.


Giovedì 15 aprile alle ore 15,30 il Prof A Luccarini ha parlato sul tema origini e sviluppo della democrazia a partire dalla lettura del libro “La democrazia in trenta lezioni” di G. Sartori.

Giovedì 22 aprile alle ore 15,30 il Prof. R. Morelli ha parlato sul tema il liberalismo e il suo rapporto con la democrazia a partire dalla lettura del libro “Lo stato canaglia” di P. Ostellino.

Giovedì 29 aprile alle ore 15,30 il Prof. L. Brunelli ha parlato sul tema la libertà di informazione in uno stato democratico a partire dalla lettura dei libri “ La mia eredità sono io” di I. Montanelli e “Montanelli. L’anarchico borghese”.

Gli incontri si sono svolti presso la Casa delle Culture sita in Via Vallemiano – Ancona

Al termine di ogni conferenza è stato rilasciato agli studenti un attestato di partecipazione.

La manifestazione ha riscontrato un buon successo con una presenza media di oltre 50 studenti.

(di Riccardo Rinaldi)

giovedì 25 marzo 2010

UN ESEMPIO RARO DI POLITICA LIBERALE

Colgo l'occasione per segnalare un articolo, apparso sul Foglio, a firma dell'ex Ministro Antonio Martino che dimostra quanto sia difficile governare seguendo principi liberali o semplicemente usando il buon senso. E' utile osservare che il Prof. Antonio Martino ebbe vita difficile, molto difficile, sia con l'opposizione di Centro Sinistra che con il suo governo di Centro Destra. Il finale è straordinario perchè chiarisce bene il perchè di alcuni atti di governo apparentemente insensati. E detto da chi è stato nella stanza del bottoni ha una valenza in più. Grazie Prof. Martino! Temo che le sia, e ci sia, costato molto, infatti non è più al Governo di questo paese.

"Di Antonio Martino
31 gennaio 2010
Meno male, ho perso l'aereo
Le rivelazioni di Antonio Martino sull'affare Airbus A400M
L'ex titolare della Difesa ricorda sul Foglio come e perché ci sfilammo dal consorzio europeo


Il 22 gennaio scorso le agenzie hanno dato notizia che si era concluso con un nulla di fatto l’incontro di due giorni tenuto a Berlino dai rappresentanti dei paesi clienti del programma A400M sul futuro del progetto. In particolare, il ministro della Difesa della Repubblica federale di Germania, Karl Theodor zu Guttenberg, aveva definito inaccettabile l’opzione di ricevere un minor numero di aerei A400M per il prezzo stabilito di 20 miliardi di euro. “Ottenere meno per gli stessi soldi per me è inaccettabile” era stato il lapidario commento di Guttenberg.
La vicenda aveva attirato l’interesse degli organi d’informazione nei giorni precedenti. Per esempio, il 6 gennaio in un lungo articolo significativamente intitolato “Airbus minaccia di bloccare l’A400M” il Sole 24 Ore dava conto delle difficoltà del programma e del suo incerto futuro. Per chi non lo sapesse, l’aereo in questione dovrebbe essere dedicato al trasporto militare e rappresentare un primo esempio d’iniziativa europea in materia d’industria della difesa. Il consorzio dell’aereo, istituito nel 1970 (sic) è composto da sette paesi – Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Belgio, Lussemburgo e Turchia – e ha recentemente incontrato difficoltà che hanno fatto aumentare i costi previsti di 5,3 miliardi di euro. Airbus sarebbe disposta ad accollarsi al massimo tre miliardi di questi costi aggiuntivi ma chiede che gli altri 2,3 miliardi siano sborsati dai paesi interessati; altrimenti, in mancanza di un accordo entro la fine del mese, cancellerà del tutto il progetto per dedicarsi esclusivamente all’aviazione civile.
Queste notizie mi hanno riportato alla mente le vicende che condussero l’Italia ad abbandonare il consorzio nel 2001. La storia, credo, merita di essere raccontata. Non appena insediato come ministro della Difesa, l’11 giugno 2001, mi fu sottoposta la questione dell’adesione dell’Italia al consorzio per l’aereo da trasporto militare della società francese Airbus, cui il governo di centrosinistra aveva dato la sua adesione in linea di principio, e che avrebbe dovuto essere formalizzata con la mia firma pochi giorni dopo.
Non essendo adeguatamente informato sulla vicenda, convocai i vertici militari perché mi facessero il punto della situazione. Venni così a sapere che il centrosinistra, prima di mostrarsi interessato all’A400M, aveva ordinato 22 aerei da trasporto militare C130J prodotti dall’americana Lockheed, che cominciavano proprio allora a esserci consegnati. Chiesi se fossero sufficienti alle esigenze di trasporto dell’Aeronautica militare. Mi fu risposto che il progetto dell’A400M serviva a far nascere un’industria europea della difesa e che la partecipazione dell’Italia avrebbe comportato vantaggi in termini di commesse per alcune industrie italiane del settore, che avrebbero prodotto qualche parte. Non essendo del tutto convinto, posi invano il quesito se l’aereo servisse all’Aeronautica italiana.
Per essere certo di non prendere una decisione sbagliata, sentii anche altre opinioni e scoprii che l’Aeronautica non solo non riteneva indispensabile per la sua linea di trasporto la partecipazione al consorzio dell’aereo francese, ma che per il trasporto dei mezzi e dei materiali le Forze armate italiane facevano ricorso al noleggio di un aereo di produzione russa, l’Antonov 70, che, a differenza dell’A400M, esisteva già, aveva un costo unitario molto minore, e aveva una portata quasi doppia rispetto a quella che avrebbe avuto l’aereo francese una volta realizzato.
Sapendo che il trasporto di mezzi e materiali militari per missioni all’estero costituiva un’esigenza abbastanza infrequente, l’idea di preferire il noleggio all’acquisto mi sembrava assolutamente sensata. Chi di noi acquisterebbe un’automobile sapendo che al massimo ne avrà bisogno due o tre volte l’anno? Molto più economico affittarla quando serve. Del resto, come detto, sempre per scelta del centrosinistra, l’Aeronautica militare era già stata largamente dotata di aerei da trasporto peraltro affidabilissimi. Mi convinsi, quindi, che l’adesione al progetto fosse inutile e contraria agli interessi nazionali e, adducendo come giustificazione il fatto che il governo, non avendo ancora ottenuto la fiducia del Parlamento, non era nella pienezza dei suoi poteri, non partecipai all’incontro internazionale.
Apriti cielo! Fui sommerso da critiche e contumelie, accusato d’essere anti-europeista e filo-americano, di avere preferito un aereo americano a uno europeo (dimenticando che l’acquisto dei C130J era stato deciso dal centrosinistra), di far perdere alle industrie italiane commesse lucrative e chi più ne ha più ne metta. Persino il normalmente cortese Letta (Enrico, ovviamente, non Gianni) stigmatizzò quella che chiamò “politica della sedia vuota” (che credo sia da preferire alla politica della testa vuota)!
Il mio problema divenne quello di far accettare questa mia scelta e scoprii immediatamente che la cosa non era per nulla facile. Dovetti anzitutto dare conto alle commissioni parlamentari congiunte Esteri e Difesa di Camera e Senato. In risposta a una domanda, dissi che “nell’occasione la Francia non si è limitata a elargire croci della Legion d’onore”. L’effetto di questa mia affermazione fu che l’indomani mi pervenne una lettera dell’ambasciatore francese che pretendeva scuse ufficiali. Chiesi al mio consigliere diplomatico di informare l’esimio rappresentante della sorella latina che mi ero limitato ad alludere alla notizia ampiamente riferita dalla stampa tedesca quella mattina secondo cui gli sforzi per ottenere l’adesione dei vari paesi al progetto avrebbero incluso anche incentivi pecuniari.
Tempo dopo, trovandomi alla riunione dei ministri della Difesa della Nato a Bruxelles, convinto che avrei dovuto informare i paesi interessati della decisione italiana, telefonai al presidente del Consiglio per sapere se ero autorizzato a farlo. Mi rispose che potevo procedere e così feci. In quell’occasione trovai impeccabile la risposta del collega francese, il socialista Alain Richard, che comprese perfettamente le mie motivazioni e incassò la decisione senza battere ciglio.
La mia soddisfazione per l’esito della vicenda, tuttavia, non durò a lungo. Tornato a Roma, in occasione di una riunione del Consiglio dei ministri, il nostro ministro degli Esteri, Renato Ruggiero, manifestò la sua convinta disapprovazione per la mia scelta. Per rabbonirlo il presidente del Consiglio sostenne che si era trattato di una mia iniziativa personale e che il governo non aveva ancora deciso. Per nulla soddisfatto, Ruggiero pretese che il Parlamento fosse informato di come stessero effettivamente le cose e fu così che Berlusconi, evidentemente dimentico di avermi autorizzato, mi chiese di andare in Aula alla Camera per dichiarare che si era trattato solo di un mio personalissimo parere. Renato Ruggiero e io avemmo nei primi mesi di vita del governo un rapporto ispirato a sincera simpatia e fruttuosa collaborazione. Renato diceva che eravamo “twin ministers”, ministri gemelli, e approfittando di questo simpatico rapporto, lo avevo prontamente informato di cosa pensassi dell’A400M, chiedendogli di aiutarmi a fare accettare la decisione ai partner europei. Con mio grande stupore, la documentazione che gli avevo trasmesso non lo convinse: era irrimediabilmente dell’idea che l’Italia dovesse aderire al consorzio del maledetto aeroplano. La nostra divergenza di vedute non ha cancellato la stima e l’amicizia che provo nei suoi confronti e che ritengo ricambiate.
Andai in Aula e non fu un’esperienza piacevole.
Ricordo vividamente lo scambio di battute con Marco Minniti, responsabile per la Difesa dei Ds, che era stato sottosegretario alla Difesa nel governo D’Alema. Dimentico del fatto che la decisione di acquistare i 22 C130J era stata presa dal governo di cui aveva fatto parte, insisteva nel caldeggiare la partecipazione al consorzio dell’aereo francese e lasciava trapelare la sua convinzione che la mia posizione fosse determinata anche da un pregiudiziale favore per gli Stati Uniti d’America e da una irragionevole antipatia per l’Europa. Ovviamente, entrambe le cose erano irrilevanti e fondate su ipotesi false.
Una delle differenze fra la tesi dei fautori dell’A400M e la mia era che per me un aereo militare merita di essere acquistato se e soltanto se serve alle esigenze dell’Aeronautica; i miei critici, invece, erano convinti che dovesse servire all’industria italiana e all’integrazione dell’Europa. Rispondendo a quei due requisiti, doveva essere comprato anche se non particolarmente necessario alla nostra forza aerea. Vanamente tentai di far comprendere che scavare buche nei campi da tennis per poi farle riempire “crea” lavoro sia per i “buchisti” sia per i “copribuchisti” ma che non per questo fa l’interesse dell’economia nazionale. Costruire parti di un aereo è conveniente per chi quelle parti produce, ma acquistare un mezzo militare che non serve alle Forze armate significa sprecare risorse che potrebbero essere impiegate altrimenti.
Noi non acquistiamo un prodotto per fare un piacere a chi lo vende, ma perché lo riteniamo utile e conveniente. Gli acquisti non si fanno perché convengono a questo o a quel produttore, ma perché l’acquirente è convinto dell’utilità del prodotto e della sua economicità. Fuor di metafora, è l’industria che dev’essere al servizio della Difesa, non il contrario. Non vi pare? Quanto all’integrazione europea, è vero che la Difesa è un tipico “bene pubblico europeo” – un obiettivo che può essere perseguito più efficacemente a livello europeo che non a livello nazionale – ma non si vede perché la produzione di un aereo per altri versi antieconomica dovrebbe giovare alla difesa dell’Europa. Né mi è chiaro perché mai una difesa europea implichi necessariamente la necessità di un’industria europea della difesa, autonoma rispetto a quelle di altri paesi. Se, per esempio, un aereo militare può essere acquistato da paesi non europei a condizioni più favorevoli di quanto non siano quelle di uno prodotto in Europa, optare per questa seconda ipotesi significa solo sprecare risorse.
L’esempio più clamoroso è offerto dalla vicenda dell’Eurofighter o Typhoon, un intercettore puro ideato all’inizio degli anni 80 per contrastare la superiorità del Mig 29 dell’Unione sovietica. Quest’ultima non esiste più e il suo eccellente intercettore è ormai divenuto pezzo da collezione, ma il consorzio europeo dell’Eurofighter esiste ancora e l’Italia, per decisione del governo D’Alema, si è impegnata ad acquistarne 122 esemplari! Ognuno di questi costa quasi dieci volte più di un F16 americano e non ne ha le capacità: l’F16 è anche un bombardiere che può fare uso di Pgm (“precision guided munitions”, le cosiddette bombe intelligenti), mentre l’aereo europeo è soltanto un intercettore, un caccia. Ha senso produrre in Europa a un costo di dieci volte superiore un aereo inferiore? A me non sembra.
Può darsi, tuttavia, che dal 2006 a oggi l’inferiorità dell’aereo europeo rispetto a quello americano sia stata eliminata e devo anche riconoscere che si tratta di una splendida macchina (l’ho anche pilotato!), ma dubito che gli artigiani del nord-est e i contribuenti considerino un buon affare pagare tasse per finanziare sprechi. Il vero europeista non è chi in nome dell’Europa sacrifica gli interessi del suo paese. L’europeismo autentico è, viceversa, basato sulla convinzione che un’Europa unita consenta di realizzare meglio l’interesse nazionale.
Tornando all’aereo francese, anche se confesso che mi asterrò dal pianto nel caso in cui non fosse prodotto, devo ammettere che provo sincera gratitudine nei suoi confronti. Grazie ad esso, credo di potere con tutta serenità affermare di essere stato il primo ministro della Difesa al mondo a rifiutare un mezzo militare che il suo governo gli offriva. In genere accade il contrario: il ministro chiede per le Forze armate qualcosa che, per una ragione qualsiasi, il governo si rifiuta di concedergli! Ma come riuscii a ottenere quell’esito? Dopo qualche tempo, la presidenza del Consiglio decise che si doveva mettere la parola fine a una vicenda durata anche troppo a lungo. Venne così convocata una riunione cui presero parte il presidente del Consiglio, il sottosegretario alla presidenza, il vicepresidente del Consiglio, il ministro degli Esteri e quelli dell’Economia, Attività produttive, Affari europei, e io. Giulio Tremonti disse che non era contrario all’A400M e, quando gli rinfacciai la stranezza di negare alla Difesa un miliardo di lire per la manutenzione dell’aeroporto di Pristina e poi dirsi disposti a sborsarne un gran numero per qualcosa che gli interessati reputavano non necessario, abbandonò la riunione.
Antonio Marzano si limitò a sostenere quanto era ovvio: se la Difesa dice che ne può fare a meno, non si vede perché si debba acquistare. Ruggiero dichiarò che non difendeva il progetto per ragioni militari né per europeismo ma per ragioni di politica industriale: partecipare era nell’interesse dell’industria italiana ed europea. Gianfranco Fini osservò che se perfino l’“imbelle” Lussemburgo partecipava, l’Italia non poteva restare fuori. Fu a questo punto che lasciai cadere l’osservazione che un ministro italiano aveva avuto l’onestà e lo scrupolo di informare la presidenza del Consiglio di avere ricevuto l’offerta di una percentuale sull’affare se avesse convinto il governo ad aderire. Fu come se avessi sganciato una bomba: Fini mi accusò di essere un irresponsabile, Ruggiero dichiarò con forza che non si sarebbe mai più occupato della questione e così via. La riunione si concluse con la vittoria della mia tesi.
Morale: le frodi e il malaffare connessi alle forniture militari risalgono alla notte dei tempi e il problema, temo, non ha una soluzione infallibile in tutti i casi. In questa, come in molte altre circostanze, non sarebbe male se gli interessati avessero a cuore la Difesa, che è la sola ragion d’essere dello stato, l’unico presidio alle nostre libertà e la nostra ragione di speranza nel futuro.
di Antonio Martino
© - FOGLIO QUOTIDIANO
31 gennaio 2010

lunedì 22 marzo 2010

ENDORSEMENT? NO GRAZIE

Ho letto gli articoli pubblicati dall’amico Riccardo Rinaldi e, come scritto in un commento al primo articolo, continuo a non essere d’accordo sulle ragioni espresse a favore di un endorsement personale per quelli che Rinaldi considera “i meno peggio”.

Preciso, per coloro che leggono il blog della nostra associazione, che le opinioni espresse dalle pagine del blog sono opinioni personali e non coinvolgono il Centro Studi Liberali Benedetto Croce che è un’associazione culturale, non legata ad alcun partito, e che vanta tra i suoi iscritti persone che votano partiti di destra, di centro, di sinistra e anche chi non vota affatto.

Entrando nel merito delle tesi di Rinaldi circa queste elezioni regionali, noto due importanti difetti: 1) il primo riguarda la tipologia di delega che diamo in questa tornata che non riguarda i temi della fiscalità o della immigrazione che sono competenze del governo centrale. Se guardiamo i bilanci, le Regioni sono soggetti che prevalentemente si occupano di Sanità e Agricoltura e sono titolari dei fondi europei. Il voto sulle regionali dovrebbe quindi essere indirizzato su questi temi e non su quelli di fiscalità e immigrazione. Vorrei sapere come i canditati Presidenti e come i candidati Consiglieri vogliono rendere la mia regione la migliore nelle statistiche sui servizi che questa eroga. Solo così posso andare a votare, magari senza avere la risposta che avrei voluto ascoltare, ma scegliendo quella ritenuta migliore tra quelle esposte.

2) il secondo errore, secondo me è quello di invitare a votare chi dice una cosa e invece ne fa un’altra. Questo, secondo me, è premiare chi non rispetta i patti, premiare l'inaffidabilità di chi governa, di chi si muove sul piano politico quasi esclusivamente per interesse privato a danno della grande maggioranza dei contribuenti. Votare turandosi il naso ha permesso che l'Italia diventasse il paese europeo più indebitato, con la corruzione più alta, con il tasso di sviluppo più basso, con la burocrazia più ingombrante e alla pressione fiscale più elevata. Siamo il paese con il minor senso civico e dello Stato e con il sistema democratico più traballante (ci stiamo rendendo conto che ormai ad ogni tornata elettorale si cambiano le regole del gioco a seconda delle posizioni vantaggio o svantaggio dei contendenti). E poi...siamo sicuri che il PDL "predichi bene"?
Votare è un diritto che vorrei esercitare senza dovermi turare il naso per scegliere il meno peggio. Possibile che nessuno di noi possa aspirare a qualcosa di meglio?. Da semplice liberale (senza definirmi autentico) mi permetto di dubitare dei maestri, anche di Indro Montanelli. Inoltre, lo stesso Montanelli, fece questa dichiarazione, che non condivido, in un periodo molto particolare: gli avevano da poco sparato alle gambe e si profilava in Italia un bel regime, stato di polizia da una parte e rivoluzione proletaria dall’altra e forse non si poteva andare troppo per il sottile.

Mi permetto inoltre di esprimere un’opinione anch’essa personale: La posizione della Lega Nord in tema di immigrazione non può essere considerata liberale (“autenticamente liberale” direbbe Riccado Rinaldi). La posizione liberale è quella di Milton Friedman che diceva: “gli immigrati hanno due braccia ed una sola bocca, quindi sono una risorsa per il paese”. Gli immigrati sono in genere le persone più capaci dei paesi di provenienza, retti spesso da dittature o paesi dove si fa la fame vera. Sono persone che cercano la fortuna dove le condizioni lo permettono. La clandestinità è nella stragrande maggioranza di casi un problema indotto da leggi proibizioniste (e il proibizionismo non è liberale). In Italia inoltre abbiamo un problema in più… dato che non riusciamo a tenere i nostri giovani migliori che debbono sempre più spesso cercare fortuna all’estero (nuovi emigrati), non riusciamo ad attrarre cervelli stranieri ma solo persone che debbono occuparsi di lavori umili che gli italiani non vogliono più fare. Il saldo è negativo (esportiamo cervelli, importiamo manodopera) ma le ricette della Lega, purtroppo, non sono quelle che ci faranno fare il salto in avanti.

Caro Riccardo, ci vuole coraggio! Mettiamoci in pista e smettiamola di turarci il naso, altrimenti si determina una situazione rischiosa. Quella di vedere posizioni liberali anche dove non ci sono e poi ci convinciamo che lo siano solo perché espresse da una parte politica che usa la parola “libertà” negli slogan. Così funziona la pubblicità commerciale!

Cerchiamo invece di fare noi proposte, trovare degli interlocutori politici affidabili che le possano portare avanti, richiamarli all’ordine quando non rispettano gli impegni. Questa credo sia la democrazia (anche se non liberale). Su questo si dovrebbe fondare il principio della delega del potere. Altrimenti parliamo di tifo politico, di arbitrio. In altre parole è su questo che si esercita uno dei diritti del cittadino che altrimenti rischia di essere semplicemente un suddito. (di CLAUDIO FERRETTI)

domenica 21 marzo 2010

ELEZIONI REGIONALI MENO UNA SETTIMANA

Dunque c’eravamo lasciati a tre settimane dalla elezioni regionali con il ragionamento “turiamoci il naso e andiamo a votare per uno schieramento” sulla base della dicotomia tasse bellissime – tasse odiose.


Ma all’interno dello schieramento di centro destra si trovano posizioni eterogenee su vari argomenti ed allora proviamo a prenderne uno e ad analizzarlo con la nostra speciale lente liberale.

In questi giorni tutti parlano di giustizia, di informazione, di crisi economica, ma io preferisco affrontare il tema della immigrazione perché forse è quello in realtà davvero più percepito dalla gente, nonostante le distrazioni causate dagli ultimi fatti di cronaca (corruzione, intercettazioni ed escort di turno).

Accetto la sfida di parlare di immigrazione allettato anche dal fatto che ogni liberale che si rispetti si trova un po’ spiazzato davanti al tema della globalizzazione e del significato prevalentemente dispregiativo con il quale viene affrancato da tanti .

La globalizzazione invece presuppone una estensione del principio di libero scambio per merci, capitali e persone dovunque, in ogni parte del mondo e quindi, a prima vista, una perfetta ricetta di liberalismo puro.

Voglio dimostrare che in realtà questo è un argomento ostico per un liberale vero, al di là delle apparenze, e va sciolto attraverso ragionamenti sopraffini, per nulla banali.

Non ci si ricorda mai abbastanza di quel titolo del capolavoro di Frederic Bastiat “Quel che si vede e quel che non si vede” nel quale già a metà ottocento si metteva in guardia il popolo sprovveduto rispetto ai giochi di illusionismo al quale il potere di allora ricorreva per spacciare liberalismo falso per liberalismo vero.

L’immigrazione oggi è esplosa come un fenomeno mondiale all’apparenza inarrestabile che riguarda tutti i paesi sviluppati, specie se confinanti con paesi in via di sviluppo.

Non ci occuperemo del diritto di asilo per ragioni umanitarie, ma solo delle accoglienze promosse da semplici fattori economici, cioè povertà verso ricchezza.

Il punto di vista liberale afferma che ogni forma di sviluppo della competizione procura un incremento della ricchezza delle nazioni che va a beneficio di tutti, anche delle classi più deboli e che a marcare le differenze tra gli individui deve essere l’impegno e il merito personale.

Quindi alle fondamenta sta sempre il principio della libera competizione, se non c’è quello il sistema non può considerarsi liberale.

Applicato al tema della immigrazione significa che essa è benefica se va ad alimentare il meccanismo concorrenziale in una società già di per se concorrenziale.

Ma è questo il caso dell’Italia e in generale dei principali paesi dell’occidente?

Riflettiamo.

L’immigrazione in Italia è concentrata in una ben precisa nicchia di lavoro: quello che gli Italiani rifiutano di fare.

Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di badanti, di addetti alle pulizie, di raccoglitori di prodotti agricoli, di manovali non specializzati, di facchini etc.

Questi lavoratori cioè non vanno a modificare il grado di efficienza con il quale vengono prodotti determinati servizi, ma vanno semplicemente a sostituire intere classi di lavoratori indigeni i quali rivolgono altrove i loro interessi.

L’immigrazione italiana è prevalentemente illegale e alimenta le attività esercitate “in nero” con tutte le conseguenze che si immaginano in termini di sicurezza sul lavoro, di evasione fiscale, per non parlare poi di sleale concorrenza che non può neppure chiamarsi più tale quanto legge della Jungla.

Gli Italiani che rifiutano i suddetti lavori in blocco, in realtà per la stragrande maggioranza vanno ad ingrossare le fila di coloro che approfittano del colabrodo del sistema sociale il quale garantisce un fondo di sussistenza a tutti purchè siano cittadini italiani.

In molte regioni d’Italia poi vengono procacciate braccia al sistema malavitoso o in generale a quel mondo di nullafacenti che vivono di espedienti per truffare lo Stato prima di tutto e talvolta la gente onesta.

Insomma l’arrivo di immigrazione tutta concentrata in determinate classi di lavoratori non produce leale concorrenza, ma fornisce unicamente manovalanza a basso costo e sposta tutta una massa di cittadini italiani verso fasce sociali che a loro volta non producono concorrenza.

Il problema della sicurezza sociale si acuisce quindi per gli effetti concomitanti della delinquenza importata dall’esterno e quella indotta verso l’interno.

Sorgono così gravi effetti sul sentimento di sicurezza e benessere che ad un certo punto diventa socialmente insostenibile.

Non va poi dimenticato che l’Italia soffre di una grave sindrome per cui buona parte dei suoi lavoratori operano in regime di totale protezione (dipendenti pubblici, quelli ufficiali e quelli assimilabili, poi ordini professionali etc.), con la conseguenza che per questi l’effetto immigrazione non è neppure avvertibile in senso di evoluzione concorrenziale.

Anzi per essi diventa solo un problema sociale e un problema di convivenza.

Per tutte queste ragioni si comprende che il punto di vista liberale sul tema della immigrazione dovrebbe, a mio avviso, pretendere che ogni ingresso nel nostro paese debba essere regolamentato.

Anzi devono valere in modo rigido i meccanismi di contingentamento con una caratteristica peculiare: dovrebbero essere spalmati su un più ampio ventaglio di categorie di lavoratori, non cioè solo verso quelli attualmente interessati (badanti etc.)

Per fare ciò si potrebbe organizzare presso le ambasciate dei paesi più poveri scuole di qualificazione (finanziate dall’Italia) alle quali dovrebbero accedere i giovani del posto con il doppio obiettivo di andare a pescare lì i possibili lavoratori immigrati e comunque lasciare alla Nazione in via di sviluppo una massa di giovani scolarizzati e qualificati a spese dell’Italia.

Questo sì che sarebbe un serio metodo per aiutare i popoli bisognosi e promuovere allo stesso tempo vantaggi anche in patria.

Cioè l’immigrazione deve avere due caratteristiche; essere regolamentata (e quindi non clandestina) e deve coprire tutte le tipologie di lavoro per migliorare, attraverso la competizione, le prestazioni lavorative stesse e di conseguenza i prodotti e i servizi che se ne ricavano.

Naturalmente tutto questo sta agli antipodi di qualsiasi forma di protezionismo che a parole tutti dichiarano di rifiutare.

In conclusione a me sembra che le riflessioni alle quali sono stato portato seguendo il filo del pensiero liberale coincidono in modo abbastanza preciso con le idee sostenute da tempo dalla Lega Nord.

Creare legislativamente un regime di ingressi regolamentati che vadano a favorire la libera concorrenza per molte classi di lavoro rappresenta un obiettivo auspicabile e per niente razzista.

Lo definirei forse pragmatico, ma non razzista, anzi la preoccupazione di favorire la formazione di lavoratori presso i paesi terzi mi sembra invece piuttosto generoso e comunque reciprocamente conveniente.

Per tutte queste ragioni non trovo in contrasto la posizione liberale rispetto a quella politicamente sostenuta con vigore dalla Lega Nord sul fenomeno dell’immigrazione, purchè la Lega Nord sia disposta ad accettare il contingentamento di ingressi anche per le altre categorie di lavoratori oggi immuni e respinga ogni tentazione protezionistica .

Scritto da Riccardo Rinaldi

lunedì 15 marzo 2010

ANALISI DELLA CRISI IN CORSO

Ralf Dahrendorf, dimostra nell'articolo che vi allego di rappresentare un esempio di quel mondo culturale che non vuole arrendersi alla omologazione del potere economico imperante.
Con lucidità e perspicacia esamina le ragioni di questa crisi e ne anticipa i possibili rimedi.
Apprezzabile è la sua analisi di carattere morale che accompagna sempre i periodi di frattura storica tra un passato ed un futuro che non si conciliano, una cuspide della storia come tante già trascorse e tante che dovranno venire.
Scritto da Riccardo Rinaldi
AL MERCATO DELLA RESPONSABILITA’


di Ralf Dahrendorf



Chi nel 2009 parla "della crisi" non ha bisogno di spiegare ai suoi lettori o ascoltatori di che cosa si tratti.

E le spiegazioni del crollo socio-economico sono così varie quanto le reazioni alla crisi stessa.

Vanno dal troppo specifico al troppo generale e confondono più di quanto non spieghino.

All'estremità ultraspecifica di queste spiegazioni vi è la tesi che tutto quanto è successo nell'economia mondiale dallo scorso settembre è riconducibile alla decisione del Governo americano di non proteggere la banca Lehman Brothers dall'insolvenza.

Una singola decisione avrebbe così scatenato un effetto domino che ha scosso prima la finanza e poi l'economia reale.

All'altra estremità vi è invece chi parla di un crollo del "sistema".

D'altronde forse già Carl Marx non aveva profetizzato una brutta fine per il capitalismo? Tra questi due estremi viene offerta ogni sorta di spiegazioni politico-economiche possibili.

Ma quando le spiegazioni di un fenomeno diventano così varie, è bene mantenere la calma.

Evidentemente non sappiamo ancora dove porti la crisi.

Non sappiamo quanto durerà e abbiamo solo una vaga idea di come sarà il mondo quando sarà finita.

La tesi qui sostenuta è che abbiamo vissuto un profondo cambio di mentalità e che adesso, in reazione alla crisi, siamo di fronte a un nuovo mutamento.

Al cambio che abbiamo alle spalle si può dare un nome semplice: è il passaggio dal capitalismo di risparmio a quello di debito.

Il brillante scritto di Max Weber su L'etica protestante e lo spirito del capitalismo ha i suoi punti deboli, ma rimane plausibile la tesi weberiana che l'origine dell'economia capitalista richieda una diffusa predisposizione a rimandare la soddisfazione immediata dei bisogni.

L'economia capitalista si mette in moto solo quando gli uomini non si aspettano di godere subito i frutti del loro lavoro.

Nel protestantesimo calvinista l'aldilà era il luogo della ricompensa per il sudore versato lavorando nell'aldiqua.

Da allora tuttavia si è verificato quel cambio di mentalità di cui scrive Daniel Bell in vari saggi del suo libro Cultural Contradictions of Capitalism.

Egli parla dello <>.

In altre parole, il capitalismo sviluppato esige dagli uomini elementi dell'etica protestante quando sono sul luogo di lavoro, ma al di fuori di esso, nel mondo del consumo, richiede proprio il contrario.

Il sistema economico in un certo senso distrugge le proprie premesse mentali.

Quando Bell scrive questo, non si era ancora compiuto il nuovo cambio di mentalità economica, ovvero il passaggio dalla mania consumistica alla gioiosa abitudine di fare debiti.

Quando è cominciato questo percorso? Di sicuro negli anni 80 c'erano già persone che per un centinaio di marchi facevano un giro del mondo di sei settimane pagando le ultime rate dei costi effettivi quando già più nessuno dei loro amici e conoscenti voleva vedere le diapositive scattate a Rio o Bangkok.

Giustamente Daniel Bell parla dei pagamenti a rate come del peccato originale.

Allora il capitalismo, che era già mutato dal capitalismo di risparmio a quello di consumo, si avviò finalmente verso il capitalismo di debito.

Ed è proprio qui il passaggio dal reale al virtuale, dalla creazione di valore al commercio dei derivati.

Si diffuse un comportamento che permetteva il godimento non solo prima del risparmio, bensì addirittura prima del pagamento.

<> divenne una massima d'azione.

Ma il cambiamento di mentalità qui tratteggiato è instabile.

Non si possono fare debiti all'infinito. Questa è proprio l'esperienza della crisi, nella quale cresce anche la tentazione di sostituire i debiti privati con quelli pubblici.

Ci si pone così la domanda sull'aspetto che assumerà il mondo dopo la crisi.

Parlare seriamente di ciò nella primavera del 2009 è un'impresa temeraria. E tuttavia una serie di sviluppi appare quantomeno molto probabile.

Quanto durerà la crisi? Due anni? Tre anni? Le condizioni generali dell'economia e della società in molti luoghi, come appunto in Europa, non sono particolarmente piacevoli.

Esse potrebbero però diventare la causa di un nuovo cambiamento di mentalità, il cui nucleo risiede in un rapporto nuovo col tempo.

Una caratteristica del capitalismo avanzato di debito era l'agire con il fiato incredibilmente corto.

Nel caso estremo dei commercianti di derivati significa che essi avevano già passato di mano il denaro fittizio prima ancora di porsi il quesito su quanto esso realmente valesse.

Ma un simile comportamento era solo parte di una frenesia più generalizzata.

Degli sviluppi imprenditoriali si dava notizia non più con cadenza annuale, bensì trimestrale e spesso a intervalli ancora più brevi.

I top manager non presentavano più prospettive di lungo periodo; molti venivano congedati dopo pochissimo tempo con una stretta di mano milionaria.

I politici si lamentavano di questo agire dal fiato corto, ma ne condividevano sempre più le debolezze. Per questo motivo è dall'alto che deve iniziare un nuovo rapporto con il tempo.

La questione dei compensi ai manager - uno dei motivi di rabbia popolare - diventa risolvibile solo nel momento in cui i redditi vengono agganciati a conquiste di lungo periodo.

In questo modo si può riportare al centro delle decisioni anche un concetto che negli ultimi anni del capitalismo di debito è stato dimenticato, ovvero quello degli "stakeholder".

Con questa parola s'intendono tutti quelli che magari non hanno delle partecipazioni in un'impresa, ovvero che non sono "stakeholder", ma che hanno un interesse esistenziale alla sopravvivenza e al successo dell'azienda: i fornitori e i clienti, ma soprattutto gli abitanti delle comunità in cui sono attive le imprese.

Per essi non è tanto importante la cogestione quanto il riconoscimento dei loro interessi da parte del management, e ciò a sua volta presuppone che i dirigenti sappiano guardare oltre il loro naso anziché tenere sott'occhio solo i profitti e i bonus del prossimo trimestre.

Anche il superamento delle questioni strettamente globali dipende da una nuova prospettiva temporale.

Che l'agire venga determinato da un pensare a breve o, invece, a medio periodo lo si capisce anche da come viene attuata la politica di lotta ai cambiamenti climatici o, meglio, alla mancanza di una tale politica.

Forse sono necessari avvenimenti radicali per favorire un'agire orientato al futuro.

Probabilmente il Bangladesh o l'Olanda dovranno affondare nelle onde marine prima che s'imponga il messaggio di Al Gore o Nicholas Stern.

Il cambio centrale di mentalità che potrebbe nascere da questa crisi è quindi un nuovo rapporto col tempo nell'economia e nella società.

Ultimamente, d'altro canto, si fa un gran parlare di fiducia e responsabilità.

Sono necessarie entrambe, ma entrambe presuppongono che cessi il modo di pensare estremamente miope di chi ha in mano il potere.

Perché ciò avvenga, il management deve scendere dai piani alti affinché chi prende le decisioni si rapporti nuovamente in modo responsabile verso le persone di cui ha in mano il destino.

Per favorire questo cambio di mentalità sono necessarie misure in parte reali e in parte simboliche.

Si dovrebbe quindi verificare un ritorno all'etica protestante di beata memoria? E' possibile un tale ritorno? La risposta all'ultima domanda non può che essere: probabilmente no.

In questo modo anche la prima domanda perde di valore. Ciò che non può essere , allora non sia. Le nostre economie moderne non potranno tornare indietro a Keynes e dopo di lui il pensare all'eternità con la speranza di una ricompensa nell'aldilà ha perso la sua forza e la sua attrattiva.

Non ci sarà quindi nessun ritorno all'etica protestante.

E tuttavia un ravvivamento delle antiche virtù è possibile e auspicabile.

Il paradosso del capitalismo di cui parla Daniel Bell non potrà sparire del tutto: il motore del capitalismo moderno fonda su preferenze che i metodi del capitalismo moderno non contribuiscono a rafforzare.

Per formularla in maniera meno astratta: lavoro, ordine, servizio, dovere rimangono i prerequisiti del benessere; ma lo stesso benessere significa piacere, divertimento, desiderio e distensione.

Gli uomini lavorano duro per creare beni che in senso stretto sono superflui.

Non torneremo al capitalismo di risparmio, ma a un ordine in cui il soddisfacimento dei bisogni è coperto dal necessario valore aggiunto.

Il capitalismo di debito deve essere ricondotto a una misura sopportabile.

E' necessario qualcosa come un "capitalismo responsabile", sebbene nel concetto di responsabilità è necessario che risuoni soprattutto la prospettiva di medio periodo, ovvero quella di un nuovo rapporto col tempo.

E' importante che tra pacchetti congiunturali e schemi di salvataggio non si perda di vista il dopo crisi, perché in questi anni si decide in quale tempo vivrà la prossima generazione di cittadini delle società libere.