Dunque c’eravamo lasciati a tre settimane dalla elezioni regionali con il ragionamento “turiamoci il naso e andiamo a votare per uno schieramento” sulla base della dicotomia tasse bellissime – tasse odiose.
Ma all’interno dello schieramento di centro destra si trovano posizioni eterogenee su vari argomenti ed allora proviamo a prenderne uno e ad analizzarlo con la nostra speciale lente liberale.
In questi giorni tutti parlano di giustizia, di informazione, di crisi economica, ma io preferisco affrontare il tema della immigrazione perché forse è quello in realtà davvero più percepito dalla gente, nonostante le distrazioni causate dagli ultimi fatti di cronaca (corruzione, intercettazioni ed escort di turno).
Accetto la sfida di parlare di immigrazione allettato anche dal fatto che ogni liberale che si rispetti si trova un po’ spiazzato davanti al tema della globalizzazione e del significato prevalentemente dispregiativo con il quale viene affrancato da tanti .
La globalizzazione invece presuppone una estensione del principio di libero scambio per merci, capitali e persone dovunque, in ogni parte del mondo e quindi, a prima vista, una perfetta ricetta di liberalismo puro.
Voglio dimostrare che in realtà questo è un argomento ostico per un liberale vero, al di là delle apparenze, e va sciolto attraverso ragionamenti sopraffini, per nulla banali.
Non ci si ricorda mai abbastanza di quel titolo del capolavoro di Frederic Bastiat “Quel che si vede e quel che non si vede” nel quale già a metà ottocento si metteva in guardia il popolo sprovveduto rispetto ai giochi di illusionismo al quale il potere di allora ricorreva per spacciare liberalismo falso per liberalismo vero.
L’immigrazione oggi è esplosa come un fenomeno mondiale all’apparenza inarrestabile che riguarda tutti i paesi sviluppati, specie se confinanti con paesi in via di sviluppo.
Non ci occuperemo del diritto di asilo per ragioni umanitarie, ma solo delle accoglienze promosse da semplici fattori economici, cioè povertà verso ricchezza.
Il punto di vista liberale afferma che ogni forma di sviluppo della competizione procura un incremento della ricchezza delle nazioni che va a beneficio di tutti, anche delle classi più deboli e che a marcare le differenze tra gli individui deve essere l’impegno e il merito personale.
Quindi alle fondamenta sta sempre il principio della libera competizione, se non c’è quello il sistema non può considerarsi liberale.
Applicato al tema della immigrazione significa che essa è benefica se va ad alimentare il meccanismo concorrenziale in una società già di per se concorrenziale.
Ma è questo il caso dell’Italia e in generale dei principali paesi dell’occidente?
Riflettiamo.
L’immigrazione in Italia è concentrata in una ben precisa nicchia di lavoro: quello che gli Italiani rifiutano di fare.
Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di badanti, di addetti alle pulizie, di raccoglitori di prodotti agricoli, di manovali non specializzati, di facchini etc.
Questi lavoratori cioè non vanno a modificare il grado di efficienza con il quale vengono prodotti determinati servizi, ma vanno semplicemente a sostituire intere classi di lavoratori indigeni i quali rivolgono altrove i loro interessi.
L’immigrazione italiana è prevalentemente illegale e alimenta le attività esercitate “in nero” con tutte le conseguenze che si immaginano in termini di sicurezza sul lavoro, di evasione fiscale, per non parlare poi di sleale concorrenza che non può neppure chiamarsi più tale quanto legge della Jungla.
Gli Italiani che rifiutano i suddetti lavori in blocco, in realtà per la stragrande maggioranza vanno ad ingrossare le fila di coloro che approfittano del colabrodo del sistema sociale il quale garantisce un fondo di sussistenza a tutti purchè siano cittadini italiani.
In molte regioni d’Italia poi vengono procacciate braccia al sistema malavitoso o in generale a quel mondo di nullafacenti che vivono di espedienti per truffare lo Stato prima di tutto e talvolta la gente onesta.
Insomma l’arrivo di immigrazione tutta concentrata in determinate classi di lavoratori non produce leale concorrenza, ma fornisce unicamente manovalanza a basso costo e sposta tutta una massa di cittadini italiani verso fasce sociali che a loro volta non producono concorrenza.
Il problema della sicurezza sociale si acuisce quindi per gli effetti concomitanti della delinquenza importata dall’esterno e quella indotta verso l’interno.
Sorgono così gravi effetti sul sentimento di sicurezza e benessere che ad un certo punto diventa socialmente insostenibile.
Non va poi dimenticato che l’Italia soffre di una grave sindrome per cui buona parte dei suoi lavoratori operano in regime di totale protezione (dipendenti pubblici, quelli ufficiali e quelli assimilabili, poi ordini professionali etc.), con la conseguenza che per questi l’effetto immigrazione non è neppure avvertibile in senso di evoluzione concorrenziale.
Anzi per essi diventa solo un problema sociale e un problema di convivenza.
Per tutte queste ragioni si comprende che il punto di vista liberale sul tema della immigrazione dovrebbe, a mio avviso, pretendere che ogni ingresso nel nostro paese debba essere regolamentato.
Anzi devono valere in modo rigido i meccanismi di contingentamento con una caratteristica peculiare: dovrebbero essere spalmati su un più ampio ventaglio di categorie di lavoratori, non cioè solo verso quelli attualmente interessati (badanti etc.)
Per fare ciò si potrebbe organizzare presso le ambasciate dei paesi più poveri scuole di qualificazione (finanziate dall’Italia) alle quali dovrebbero accedere i giovani del posto con il doppio obiettivo di andare a pescare lì i possibili lavoratori immigrati e comunque lasciare alla Nazione in via di sviluppo una massa di giovani scolarizzati e qualificati a spese dell’Italia.
Questo sì che sarebbe un serio metodo per aiutare i popoli bisognosi e promuovere allo stesso tempo vantaggi anche in patria.
Cioè l’immigrazione deve avere due caratteristiche; essere regolamentata (e quindi non clandestina) e deve coprire tutte le tipologie di lavoro per migliorare, attraverso la competizione, le prestazioni lavorative stesse e di conseguenza i prodotti e i servizi che se ne ricavano.
Naturalmente tutto questo sta agli antipodi di qualsiasi forma di protezionismo che a parole tutti dichiarano di rifiutare.
In conclusione a me sembra che le riflessioni alle quali sono stato portato seguendo il filo del pensiero liberale coincidono in modo abbastanza preciso con le idee sostenute da tempo dalla Lega Nord.
Creare legislativamente un regime di ingressi regolamentati che vadano a favorire la libera concorrenza per molte classi di lavoro rappresenta un obiettivo auspicabile e per niente razzista.
Lo definirei forse pragmatico, ma non razzista, anzi la preoccupazione di favorire la formazione di lavoratori presso i paesi terzi mi sembra invece piuttosto generoso e comunque reciprocamente conveniente.
Per tutte queste ragioni non trovo in contrasto la posizione liberale rispetto a quella politicamente sostenuta con vigore dalla Lega Nord sul fenomeno dell’immigrazione, purchè la Lega Nord sia disposta ad accettare il contingentamento di ingressi anche per le altre categorie di lavoratori oggi immuni e respinga ogni tentazione protezionistica .
Scritto da Riccardo Rinaldi
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1 commento:
Ho iniziato a legger con sincera curiosità. Mi è sorto qualche dubbio sulla sua competenza in materia leggendo la sua descrizione delle collocazioni lavorative degli immigrati (appare evidente che lei non conosca né i dati della Bamca d'Italia né quelli dell'ISTAT). Ho perso ogni speranza leggendo che secondo lei L’immigrazione italiana è prevalentemente illegale: a quanto pare non conosce neppure i dati più elementari sul fenomeno (li può trovare facilmente nel sito del Ministero degli Interni, se crede). Mi resta da farle una domanda: se non ne conosce nulla, perché ne parla?
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