Dunque c’eravamo lasciati a tre settimane dalla elezioni regionali con il ragionamento “turiamoci il naso e andiamo a votare per uno schieramento” sulla base della dicotomia tasse bellissime – tasse odiose.
Ma all’interno dello schieramento di centro destra si trovano posizioni eterogenee su vari argomenti ed allora proviamo a prenderne uno e ad analizzarlo con la nostra speciale lente liberale.
In questi giorni tutti parlano di giustizia, di informazione, di crisi economica, ma io preferisco affrontare il tema della immigrazione perché forse è quello in realtà davvero più percepito dalla gente, nonostante le distrazioni causate dagli ultimi fatti di cronaca (corruzione, intercettazioni ed escort di turno).
Accetto la sfida di parlare di immigrazione allettato anche dal fatto che ogni liberale che si rispetti si trova un po’ spiazzato davanti al tema della globalizzazione e del significato prevalentemente dispregiativo con il quale viene affrancato da tanti .
La globalizzazione invece presuppone una estensione del principio di libero scambio per merci, capitali e persone dovunque, in ogni parte del mondo e quindi, a prima vista, una perfetta ricetta di liberalismo puro.
Voglio dimostrare che in realtà questo è un argomento ostico per un liberale vero, al di là delle apparenze, e va sciolto attraverso ragionamenti sopraffini, per nulla banali.
Non ci si ricorda mai abbastanza di quel titolo del capolavoro di Frederic Bastiat “Quel che si vede e quel che non si vede” nel quale già a metà ottocento si metteva in guardia il popolo sprovveduto rispetto ai giochi di illusionismo al quale il potere di allora ricorreva per spacciare liberalismo falso per liberalismo vero.
L’immigrazione oggi è esplosa come un fenomeno mondiale all’apparenza inarrestabile che riguarda tutti i paesi sviluppati, specie se confinanti con paesi in via di sviluppo.
Non ci occuperemo del diritto di asilo per ragioni umanitarie, ma solo delle accoglienze promosse da semplici fattori economici, cioè povertà verso ricchezza.
Il punto di vista liberale afferma che ogni forma di sviluppo della competizione procura un incremento della ricchezza delle nazioni che va a beneficio di tutti, anche delle classi più deboli e che a marcare le differenze tra gli individui deve essere l’impegno e il merito personale.
Quindi alle fondamenta sta sempre il principio della libera competizione, se non c’è quello il sistema non può considerarsi liberale.
Applicato al tema della immigrazione significa che essa è benefica se va ad alimentare il meccanismo concorrenziale in una società già di per se concorrenziale.
Ma è questo il caso dell’Italia e in generale dei principali paesi dell’occidente?
Riflettiamo.
L’immigrazione in Italia è concentrata in una ben precisa nicchia di lavoro: quello che gli Italiani rifiutano di fare.
Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di badanti, di addetti alle pulizie, di raccoglitori di prodotti agricoli, di manovali non specializzati, di facchini etc.
Questi lavoratori cioè non vanno a modificare il grado di efficienza con il quale vengono prodotti determinati servizi, ma vanno semplicemente a sostituire intere classi di lavoratori indigeni i quali rivolgono altrove i loro interessi.
L’immigrazione italiana è prevalentemente illegale e alimenta le attività esercitate “in nero” con tutte le conseguenze che si immaginano in termini di sicurezza sul lavoro, di evasione fiscale, per non parlare poi di sleale concorrenza che non può neppure chiamarsi più tale quanto legge della Jungla.
Gli Italiani che rifiutano i suddetti lavori in blocco, in realtà per la stragrande maggioranza vanno ad ingrossare le fila di coloro che approfittano del colabrodo del sistema sociale il quale garantisce un fondo di sussistenza a tutti purchè siano cittadini italiani.
In molte regioni d’Italia poi vengono procacciate braccia al sistema malavitoso o in generale a quel mondo di nullafacenti che vivono di espedienti per truffare lo Stato prima di tutto e talvolta la gente onesta.
Insomma l’arrivo di immigrazione tutta concentrata in determinate classi di lavoratori non produce leale concorrenza, ma fornisce unicamente manovalanza a basso costo e sposta tutta una massa di cittadini italiani verso fasce sociali che a loro volta non producono concorrenza.
Il problema della sicurezza sociale si acuisce quindi per gli effetti concomitanti della delinquenza importata dall’esterno e quella indotta verso l’interno.
Sorgono così gravi effetti sul sentimento di sicurezza e benessere che ad un certo punto diventa socialmente insostenibile.
Non va poi dimenticato che l’Italia soffre di una grave sindrome per cui buona parte dei suoi lavoratori operano in regime di totale protezione (dipendenti pubblici, quelli ufficiali e quelli assimilabili, poi ordini professionali etc.), con la conseguenza che per questi l’effetto immigrazione non è neppure avvertibile in senso di evoluzione concorrenziale.
Anzi per essi diventa solo un problema sociale e un problema di convivenza.
Per tutte queste ragioni si comprende che il punto di vista liberale sul tema della immigrazione dovrebbe, a mio avviso, pretendere che ogni ingresso nel nostro paese debba essere regolamentato.
Anzi devono valere in modo rigido i meccanismi di contingentamento con una caratteristica peculiare: dovrebbero essere spalmati su un più ampio ventaglio di categorie di lavoratori, non cioè solo verso quelli attualmente interessati (badanti etc.)
Per fare ciò si potrebbe organizzare presso le ambasciate dei paesi più poveri scuole di qualificazione (finanziate dall’Italia) alle quali dovrebbero accedere i giovani del posto con il doppio obiettivo di andare a pescare lì i possibili lavoratori immigrati e comunque lasciare alla Nazione in via di sviluppo una massa di giovani scolarizzati e qualificati a spese dell’Italia.
Questo sì che sarebbe un serio metodo per aiutare i popoli bisognosi e promuovere allo stesso tempo vantaggi anche in patria.
Cioè l’immigrazione deve avere due caratteristiche; essere regolamentata (e quindi non clandestina) e deve coprire tutte le tipologie di lavoro per migliorare, attraverso la competizione, le prestazioni lavorative stesse e di conseguenza i prodotti e i servizi che se ne ricavano.
Naturalmente tutto questo sta agli antipodi di qualsiasi forma di protezionismo che a parole tutti dichiarano di rifiutare.
In conclusione a me sembra che le riflessioni alle quali sono stato portato seguendo il filo del pensiero liberale coincidono in modo abbastanza preciso con le idee sostenute da tempo dalla Lega Nord.
Creare legislativamente un regime di ingressi regolamentati che vadano a favorire la libera concorrenza per molte classi di lavoro rappresenta un obiettivo auspicabile e per niente razzista.
Lo definirei forse pragmatico, ma non razzista, anzi la preoccupazione di favorire la formazione di lavoratori presso i paesi terzi mi sembra invece piuttosto generoso e comunque reciprocamente conveniente.
Per tutte queste ragioni non trovo in contrasto la posizione liberale rispetto a quella politicamente sostenuta con vigore dalla Lega Nord sul fenomeno dell’immigrazione, purchè la Lega Nord sia disposta ad accettare il contingentamento di ingressi anche per le altre categorie di lavoratori oggi immuni e respinga ogni tentazione protezionistica .
Scritto da Riccardo Rinaldi
domenica 21 marzo 2010
lunedì 15 marzo 2010
ANALISI DELLA CRISI IN CORSO
Ralf Dahrendorf, dimostra nell'articolo che vi allego di rappresentare un esempio di quel mondo culturale che non vuole arrendersi alla omologazione del potere economico imperante.
Con lucidità e perspicacia esamina le ragioni di questa crisi e ne anticipa i possibili rimedi.
Apprezzabile è la sua analisi di carattere morale che accompagna sempre i periodi di frattura storica tra un passato ed un futuro che non si conciliano, una cuspide della storia come tante già trascorse e tante che dovranno venire.
Scritto da Riccardo Rinaldi
AL MERCATO DELLA RESPONSABILITA’
di Ralf Dahrendorf
Chi nel 2009 parla "della crisi" non ha bisogno di spiegare ai suoi lettori o ascoltatori di che cosa si tratti.
E le spiegazioni del crollo socio-economico sono così varie quanto le reazioni alla crisi stessa.
Vanno dal troppo specifico al troppo generale e confondono più di quanto non spieghino.
All'estremità ultraspecifica di queste spiegazioni vi è la tesi che tutto quanto è successo nell'economia mondiale dallo scorso settembre è riconducibile alla decisione del Governo americano di non proteggere la banca Lehman Brothers dall'insolvenza.
Una singola decisione avrebbe così scatenato un effetto domino che ha scosso prima la finanza e poi l'economia reale.
All'altra estremità vi è invece chi parla di un crollo del "sistema".
D'altronde forse già Carl Marx non aveva profetizzato una brutta fine per il capitalismo? Tra questi due estremi viene offerta ogni sorta di spiegazioni politico-economiche possibili.
Ma quando le spiegazioni di un fenomeno diventano così varie, è bene mantenere la calma.
Evidentemente non sappiamo ancora dove porti la crisi.
Non sappiamo quanto durerà e abbiamo solo una vaga idea di come sarà il mondo quando sarà finita.
La tesi qui sostenuta è che abbiamo vissuto un profondo cambio di mentalità e che adesso, in reazione alla crisi, siamo di fronte a un nuovo mutamento.
Al cambio che abbiamo alle spalle si può dare un nome semplice: è il passaggio dal capitalismo di risparmio a quello di debito.
Il brillante scritto di Max Weber su L'etica protestante e lo spirito del capitalismo ha i suoi punti deboli, ma rimane plausibile la tesi weberiana che l'origine dell'economia capitalista richieda una diffusa predisposizione a rimandare la soddisfazione immediata dei bisogni.
L'economia capitalista si mette in moto solo quando gli uomini non si aspettano di godere subito i frutti del loro lavoro.
Nel protestantesimo calvinista l'aldilà era il luogo della ricompensa per il sudore versato lavorando nell'aldiqua.
Da allora tuttavia si è verificato quel cambio di mentalità di cui scrive Daniel Bell in vari saggi del suo libro Cultural Contradictions of Capitalism.
Egli parla dello <>.
In altre parole, il capitalismo sviluppato esige dagli uomini elementi dell'etica protestante quando sono sul luogo di lavoro, ma al di fuori di esso, nel mondo del consumo, richiede proprio il contrario.
Il sistema economico in un certo senso distrugge le proprie premesse mentali.
Quando Bell scrive questo, non si era ancora compiuto il nuovo cambio di mentalità economica, ovvero il passaggio dalla mania consumistica alla gioiosa abitudine di fare debiti.
Quando è cominciato questo percorso? Di sicuro negli anni 80 c'erano già persone che per un centinaio di marchi facevano un giro del mondo di sei settimane pagando le ultime rate dei costi effettivi quando già più nessuno dei loro amici e conoscenti voleva vedere le diapositive scattate a Rio o Bangkok.
Giustamente Daniel Bell parla dei pagamenti a rate come del peccato originale.
Allora il capitalismo, che era già mutato dal capitalismo di risparmio a quello di consumo, si avviò finalmente verso il capitalismo di debito.
Ed è proprio qui il passaggio dal reale al virtuale, dalla creazione di valore al commercio dei derivati.
Si diffuse un comportamento che permetteva il godimento non solo prima del risparmio, bensì addirittura prima del pagamento.
<> divenne una massima d'azione.
Ma il cambiamento di mentalità qui tratteggiato è instabile.
Non si possono fare debiti all'infinito. Questa è proprio l'esperienza della crisi, nella quale cresce anche la tentazione di sostituire i debiti privati con quelli pubblici.
Ci si pone così la domanda sull'aspetto che assumerà il mondo dopo la crisi.
Parlare seriamente di ciò nella primavera del 2009 è un'impresa temeraria. E tuttavia una serie di sviluppi appare quantomeno molto probabile.
Quanto durerà la crisi? Due anni? Tre anni? Le condizioni generali dell'economia e della società in molti luoghi, come appunto in Europa, non sono particolarmente piacevoli.
Esse potrebbero però diventare la causa di un nuovo cambiamento di mentalità, il cui nucleo risiede in un rapporto nuovo col tempo.
Una caratteristica del capitalismo avanzato di debito era l'agire con il fiato incredibilmente corto.
Nel caso estremo dei commercianti di derivati significa che essi avevano già passato di mano il denaro fittizio prima ancora di porsi il quesito su quanto esso realmente valesse.
Ma un simile comportamento era solo parte di una frenesia più generalizzata.
Degli sviluppi imprenditoriali si dava notizia non più con cadenza annuale, bensì trimestrale e spesso a intervalli ancora più brevi.
I top manager non presentavano più prospettive di lungo periodo; molti venivano congedati dopo pochissimo tempo con una stretta di mano milionaria.
I politici si lamentavano di questo agire dal fiato corto, ma ne condividevano sempre più le debolezze. Per questo motivo è dall'alto che deve iniziare un nuovo rapporto con il tempo.
La questione dei compensi ai manager - uno dei motivi di rabbia popolare - diventa risolvibile solo nel momento in cui i redditi vengono agganciati a conquiste di lungo periodo.
In questo modo si può riportare al centro delle decisioni anche un concetto che negli ultimi anni del capitalismo di debito è stato dimenticato, ovvero quello degli "stakeholder".
Con questa parola s'intendono tutti quelli che magari non hanno delle partecipazioni in un'impresa, ovvero che non sono "stakeholder", ma che hanno un interesse esistenziale alla sopravvivenza e al successo dell'azienda: i fornitori e i clienti, ma soprattutto gli abitanti delle comunità in cui sono attive le imprese.
Per essi non è tanto importante la cogestione quanto il riconoscimento dei loro interessi da parte del management, e ciò a sua volta presuppone che i dirigenti sappiano guardare oltre il loro naso anziché tenere sott'occhio solo i profitti e i bonus del prossimo trimestre.
Anche il superamento delle questioni strettamente globali dipende da una nuova prospettiva temporale.
Che l'agire venga determinato da un pensare a breve o, invece, a medio periodo lo si capisce anche da come viene attuata la politica di lotta ai cambiamenti climatici o, meglio, alla mancanza di una tale politica.
Forse sono necessari avvenimenti radicali per favorire un'agire orientato al futuro.
Probabilmente il Bangladesh o l'Olanda dovranno affondare nelle onde marine prima che s'imponga il messaggio di Al Gore o Nicholas Stern.
Il cambio centrale di mentalità che potrebbe nascere da questa crisi è quindi un nuovo rapporto col tempo nell'economia e nella società.
Ultimamente, d'altro canto, si fa un gran parlare di fiducia e responsabilità.
Sono necessarie entrambe, ma entrambe presuppongono che cessi il modo di pensare estremamente miope di chi ha in mano il potere.
Perché ciò avvenga, il management deve scendere dai piani alti affinché chi prende le decisioni si rapporti nuovamente in modo responsabile verso le persone di cui ha in mano il destino.
Per favorire questo cambio di mentalità sono necessarie misure in parte reali e in parte simboliche.
Si dovrebbe quindi verificare un ritorno all'etica protestante di beata memoria? E' possibile un tale ritorno? La risposta all'ultima domanda non può che essere: probabilmente no.
In questo modo anche la prima domanda perde di valore. Ciò che non può essere , allora non sia. Le nostre economie moderne non potranno tornare indietro a Keynes e dopo di lui il pensare all'eternità con la speranza di una ricompensa nell'aldilà ha perso la sua forza e la sua attrattiva.
Non ci sarà quindi nessun ritorno all'etica protestante.
E tuttavia un ravvivamento delle antiche virtù è possibile e auspicabile.
Il paradosso del capitalismo di cui parla Daniel Bell non potrà sparire del tutto: il motore del capitalismo moderno fonda su preferenze che i metodi del capitalismo moderno non contribuiscono a rafforzare.
Per formularla in maniera meno astratta: lavoro, ordine, servizio, dovere rimangono i prerequisiti del benessere; ma lo stesso benessere significa piacere, divertimento, desiderio e distensione.
Gli uomini lavorano duro per creare beni che in senso stretto sono superflui.
Non torneremo al capitalismo di risparmio, ma a un ordine in cui il soddisfacimento dei bisogni è coperto dal necessario valore aggiunto.
Il capitalismo di debito deve essere ricondotto a una misura sopportabile.
E' necessario qualcosa come un "capitalismo responsabile", sebbene nel concetto di responsabilità è necessario che risuoni soprattutto la prospettiva di medio periodo, ovvero quella di un nuovo rapporto col tempo.
E' importante che tra pacchetti congiunturali e schemi di salvataggio non si perda di vista il dopo crisi, perché in questi anni si decide in quale tempo vivrà la prossima generazione di cittadini delle società libere.
Con lucidità e perspicacia esamina le ragioni di questa crisi e ne anticipa i possibili rimedi.
Apprezzabile è la sua analisi di carattere morale che accompagna sempre i periodi di frattura storica tra un passato ed un futuro che non si conciliano, una cuspide della storia come tante già trascorse e tante che dovranno venire.
Scritto da Riccardo Rinaldi
AL MERCATO DELLA RESPONSABILITA’
di Ralf Dahrendorf
Chi nel 2009 parla "della crisi" non ha bisogno di spiegare ai suoi lettori o ascoltatori di che cosa si tratti.
E le spiegazioni del crollo socio-economico sono così varie quanto le reazioni alla crisi stessa.
Vanno dal troppo specifico al troppo generale e confondono più di quanto non spieghino.
All'estremità ultraspecifica di queste spiegazioni vi è la tesi che tutto quanto è successo nell'economia mondiale dallo scorso settembre è riconducibile alla decisione del Governo americano di non proteggere la banca Lehman Brothers dall'insolvenza.
Una singola decisione avrebbe così scatenato un effetto domino che ha scosso prima la finanza e poi l'economia reale.
All'altra estremità vi è invece chi parla di un crollo del "sistema".
D'altronde forse già Carl Marx non aveva profetizzato una brutta fine per il capitalismo? Tra questi due estremi viene offerta ogni sorta di spiegazioni politico-economiche possibili.
Ma quando le spiegazioni di un fenomeno diventano così varie, è bene mantenere la calma.
Evidentemente non sappiamo ancora dove porti la crisi.
Non sappiamo quanto durerà e abbiamo solo una vaga idea di come sarà il mondo quando sarà finita.
La tesi qui sostenuta è che abbiamo vissuto un profondo cambio di mentalità e che adesso, in reazione alla crisi, siamo di fronte a un nuovo mutamento.
Al cambio che abbiamo alle spalle si può dare un nome semplice: è il passaggio dal capitalismo di risparmio a quello di debito.
Il brillante scritto di Max Weber su L'etica protestante e lo spirito del capitalismo ha i suoi punti deboli, ma rimane plausibile la tesi weberiana che l'origine dell'economia capitalista richieda una diffusa predisposizione a rimandare la soddisfazione immediata dei bisogni.
L'economia capitalista si mette in moto solo quando gli uomini non si aspettano di godere subito i frutti del loro lavoro.
Nel protestantesimo calvinista l'aldilà era il luogo della ricompensa per il sudore versato lavorando nell'aldiqua.
Da allora tuttavia si è verificato quel cambio di mentalità di cui scrive Daniel Bell in vari saggi del suo libro Cultural Contradictions of Capitalism.
Egli parla dello <
In altre parole, il capitalismo sviluppato esige dagli uomini elementi dell'etica protestante quando sono sul luogo di lavoro, ma al di fuori di esso, nel mondo del consumo, richiede proprio il contrario.
Il sistema economico in un certo senso distrugge le proprie premesse mentali.
Quando Bell scrive questo, non si era ancora compiuto il nuovo cambio di mentalità economica, ovvero il passaggio dalla mania consumistica alla gioiosa abitudine di fare debiti.
Quando è cominciato questo percorso? Di sicuro negli anni 80 c'erano già persone che per un centinaio di marchi facevano un giro del mondo di sei settimane pagando le ultime rate dei costi effettivi quando già più nessuno dei loro amici e conoscenti voleva vedere le diapositive scattate a Rio o Bangkok.
Giustamente Daniel Bell parla dei pagamenti a rate come del peccato originale.
Allora il capitalismo, che era già mutato dal capitalismo di risparmio a quello di consumo, si avviò finalmente verso il capitalismo di debito.
Ed è proprio qui il passaggio dal reale al virtuale, dalla creazione di valore al commercio dei derivati.
Si diffuse un comportamento che permetteva il godimento non solo prima del risparmio, bensì addirittura prima del pagamento.
<
Ma il cambiamento di mentalità qui tratteggiato è instabile.
Non si possono fare debiti all'infinito. Questa è proprio l'esperienza della crisi, nella quale cresce anche la tentazione di sostituire i debiti privati con quelli pubblici.
Ci si pone così la domanda sull'aspetto che assumerà il mondo dopo la crisi.
Parlare seriamente di ciò nella primavera del 2009 è un'impresa temeraria. E tuttavia una serie di sviluppi appare quantomeno molto probabile.
Quanto durerà la crisi? Due anni? Tre anni? Le condizioni generali dell'economia e della società in molti luoghi, come appunto in Europa, non sono particolarmente piacevoli.
Esse potrebbero però diventare la causa di un nuovo cambiamento di mentalità, il cui nucleo risiede in un rapporto nuovo col tempo.
Una caratteristica del capitalismo avanzato di debito era l'agire con il fiato incredibilmente corto.
Nel caso estremo dei commercianti di derivati significa che essi avevano già passato di mano il denaro fittizio prima ancora di porsi il quesito su quanto esso realmente valesse.
Ma un simile comportamento era solo parte di una frenesia più generalizzata.
Degli sviluppi imprenditoriali si dava notizia non più con cadenza annuale, bensì trimestrale e spesso a intervalli ancora più brevi.
I top manager non presentavano più prospettive di lungo periodo; molti venivano congedati dopo pochissimo tempo con una stretta di mano milionaria.
I politici si lamentavano di questo agire dal fiato corto, ma ne condividevano sempre più le debolezze. Per questo motivo è dall'alto che deve iniziare un nuovo rapporto con il tempo.
La questione dei compensi ai manager - uno dei motivi di rabbia popolare - diventa risolvibile solo nel momento in cui i redditi vengono agganciati a conquiste di lungo periodo.
In questo modo si può riportare al centro delle decisioni anche un concetto che negli ultimi anni del capitalismo di debito è stato dimenticato, ovvero quello degli "stakeholder".
Con questa parola s'intendono tutti quelli che magari non hanno delle partecipazioni in un'impresa, ovvero che non sono "stakeholder", ma che hanno un interesse esistenziale alla sopravvivenza e al successo dell'azienda: i fornitori e i clienti, ma soprattutto gli abitanti delle comunità in cui sono attive le imprese.
Per essi non è tanto importante la cogestione quanto il riconoscimento dei loro interessi da parte del management, e ciò a sua volta presuppone che i dirigenti sappiano guardare oltre il loro naso anziché tenere sott'occhio solo i profitti e i bonus del prossimo trimestre.
Anche il superamento delle questioni strettamente globali dipende da una nuova prospettiva temporale.
Che l'agire venga determinato da un pensare a breve o, invece, a medio periodo lo si capisce anche da come viene attuata la politica di lotta ai cambiamenti climatici o, meglio, alla mancanza di una tale politica.
Forse sono necessari avvenimenti radicali per favorire un'agire orientato al futuro.
Probabilmente il Bangladesh o l'Olanda dovranno affondare nelle onde marine prima che s'imponga il messaggio di Al Gore o Nicholas Stern.
Il cambio centrale di mentalità che potrebbe nascere da questa crisi è quindi un nuovo rapporto col tempo nell'economia e nella società.
Ultimamente, d'altro canto, si fa un gran parlare di fiducia e responsabilità.
Sono necessarie entrambe, ma entrambe presuppongono che cessi il modo di pensare estremamente miope di chi ha in mano il potere.
Perché ciò avvenga, il management deve scendere dai piani alti affinché chi prende le decisioni si rapporti nuovamente in modo responsabile verso le persone di cui ha in mano il destino.
Per favorire questo cambio di mentalità sono necessarie misure in parte reali e in parte simboliche.
Si dovrebbe quindi verificare un ritorno all'etica protestante di beata memoria? E' possibile un tale ritorno? La risposta all'ultima domanda non può che essere: probabilmente no.
In questo modo anche la prima domanda perde di valore. Ciò che non può essere , allora non sia. Le nostre economie moderne non potranno tornare indietro a Keynes e dopo di lui il pensare all'eternità con la speranza di una ricompensa nell'aldilà ha perso la sua forza e la sua attrattiva.
Non ci sarà quindi nessun ritorno all'etica protestante.
E tuttavia un ravvivamento delle antiche virtù è possibile e auspicabile.
Il paradosso del capitalismo di cui parla Daniel Bell non potrà sparire del tutto: il motore del capitalismo moderno fonda su preferenze che i metodi del capitalismo moderno non contribuiscono a rafforzare.
Per formularla in maniera meno astratta: lavoro, ordine, servizio, dovere rimangono i prerequisiti del benessere; ma lo stesso benessere significa piacere, divertimento, desiderio e distensione.
Gli uomini lavorano duro per creare beni che in senso stretto sono superflui.
Non torneremo al capitalismo di risparmio, ma a un ordine in cui il soddisfacimento dei bisogni è coperto dal necessario valore aggiunto.
Il capitalismo di debito deve essere ricondotto a una misura sopportabile.
E' necessario qualcosa come un "capitalismo responsabile", sebbene nel concetto di responsabilità è necessario che risuoni soprattutto la prospettiva di medio periodo, ovvero quella di un nuovo rapporto col tempo.
E' importante che tra pacchetti congiunturali e schemi di salvataggio non si perda di vista il dopo crisi, perché in questi anni si decide in quale tempo vivrà la prossima generazione di cittadini delle società libere.
venerdì 5 marzo 2010
ELEZIONI REGIONALI MENO TRE SETTIMANE
Le elezioni regionali sono alle porte e sarebbe bene che sul nostro blog si potessero leggere post di indirizzo politico in attesa del voto che comunque la si pensi è un momento speciale di quell'animale sociale che è l'uomo.
La politica degli ultimi decenni ha portato l'Italia ad un sistema maggioritario che costringe i votanti a schierarsi di qua o di là per non sprecare il voto verso formazioni che poi non avranno voce in capitolo (non me ne voglia Casini).
Nel corso dell'ultima riunione del nostro circolo il Prof. Brunelli ha proposto di incentrare i corsi di avviamento al pensiero liberale nelle scuole presentando ai ragazzi la figura del giornalista Indro Montanelli.
L'ho trovata una idea molto brillante e l'ho sostenuta con decisione in quanto ritengo che quell'esempio di figura libera in un mestiere, quello del giornalista, che più di altri spinge al servilismo verso chi ti offre il pane per vivere, merita di essere divulgata tra le giovani generazioni.
Montanelli, quando si avvicina una qualche elezione, diceva di turarsi il naso e di andare a votare in un certo modo.
Voglio provare a far rivivere Montanelli e spiegare perchè oggi c'è ancora da turarsi il naso e andare a votare lo schieramento di centro-destra.
C'è un argomento che per chi si sente liberale assurge a cartina di tornasole per verificare da che parte stare.
Questo argomento è quello della fiscalità
Il precedente Ministro dell'economia Prof. Padoa Schioppa del precedente Governo di centro sinistra rilasciò in televisione una dichiarazione che da quel momento è rimasta impressa nelle menti di tutti gli Italiani "Le tasse sono bellissime".
Noi liberali invece diciamo "le tasse sono odiose ma necessarie e perciò devono corrispondere al minimo indispensabile".
Su questo argomento siamo tutti molto sensibili, ma noi liberali più degli altri.
Finchè la sinistra non smentisce ufficialmente la dichiarazione di Padoa Schioppa e condivide la nostra io credo che non si possa ragionevolmente votare a sinistra.
Lo dico con tutta la stima per le tante persone di sinistra che credono ingenuamente che l'interventismo statale sia un valore aggiunto.
Noi liberali autentici siamo convinti invece che la condizione di minimo stato sia quella più vantaggiosa proprio per le categorie più povere, quelle per intenderci che la sinistra vorrebbe tutelare.
Questo argomento è per noi quello dal quale deriva poi tutto il resto e da cui non si può transigere.
E' vero che il centro destra parla di abbassare le tasse e poi non fa nulla, che parla di introdurre la concorrenza e poi invece di privatizzare i settori più favorevoli ad un regime di mercato, tenta di privatizzare la Protezione Civile che con il mercato non centra un bel nulla.
Per tutte queste ragioni vale il consiglio del buon Montanelli di turarsi il naso e andare a votare chi a parole dice il giusto e poi razzola male rispetto a chi sbaglia anche a parlare.
Per dare una dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, di quanti soldi si potrebbero risparmiare se solo lo si volesse veramente, di quanta parte parte del pubblico erario se ne va in sprechi inutili quando non in veri balzelli occulti, riporto un breve articolo che ho ripreso navigando qua e la su internet (provenienza liberale).
Sono certo che dopo averlo letto tutti arriviamo a stimare che se il bilancio statale (cioè le nostre tasse) fosse ridotto della metà nessuno si accorgerebbe in termini di servizi pubblici.
Provare per credere, scritto da Riccardo Rinaldi.
In previsione delle prossime elezioni regionali, assistiamo ad una serrata campagna di buoni propositi e convinti intendimenti sulla necessità di moralizzare la vita politica, iniziando dal ripulire le liste elettorali.
Attendiamo che si stabilisca se un indagato possa essere candidabile ed, eventualmente, se ciò debba essere disciplinato da una legge o dalla buona volontà dei partiti e che si decida dopo quale grado di giudizio un condannato debba essere escluso dall’elettorato passivo.
Questa premessa, la crisi economica e la quotidianità di milioni di famiglie imporrebbero una campagna elettorale improntata alla sobrietà e alla trasparenza. Mentre il dibattito ferve, la campagna incalza, gli aspiranti consiglieri regionali fremono.
A Milano e nell’ hinterland la faccia sorridente di una signora, con la necessità di comunicare il suo trasferimento ad altro schieramento, fin da gennaio, campeggia sui muri e nelle stazioni della metropolitana dove si è dovuta accollare anche i costi dei diritti di affissione. Tra stampa e messa in opera si tratta di qualche decina di migliaia di euro. E, poverina, la campagna deve ancora iniziare.
Per non parlare delle “megacene” di due candidati , una da 7.500 inviati nei padiglioni della Fiera, l’altra con 4.000 commensali in un grande albergo.
Ed allora, proviamo a far di conto.
Per una cena di 7.500 persone, pur con tutti i favori, gli sconti e gli amici su cui può contare il candidato, vogliamo ipotizzare una spesa di 20 euro a coperto? Una cifra irrisoria, certo, ma tanto per stare al gioco.
Vogliamo aggiungere qualche euro per affittare un padiglione della Fiera (anche qui non mancano gli amici, ma qualcosa dobbiamo pur pagare), per la macchina organizzativa e il personale per gestire e disciplinare il flusso dei 7.500 da mettere a tavola? Un impianto di amplificazione: se il candidato non delinea il roseo futuro, a seguito della sua elezione, che senso avrebbe dar da mangiare a 7.500 bocche? Insomma, questa iniziativa è costata almeno 170/180 mila euro! E la campagna ufficiale non è ancora iniziata. Quante bocche sfamerà il nostro benefattore da qui al 27 marzo?
A questi costi vogliamo aggiungere una dotazione minima di materiale per ‘apparire’? 100.000 manifesti, squadre di volontari per l’affissione, 500.000 santini, 200/300.000 depliant; mega poster da 6x3 metri, vele sui camion, camper che girano la città e i mercati e tanto altro ancora. E poi in televisione possiamo non esserci? Spot per gli ultimi quindici giorni e nelle quattro principali emittenti regionali significano altri 100.000 euro; e alla carta stampata non vogliamo elargire qualche soldo? Un paio di mezze pagine e un paio di pagine intere per gli ultimi giorni di campagna elettorale significano altri 35/40.000 euro. Poi abbiamo i giornali d’area, qualche passaggio sul Corriere, sui free press, sui tanti settimanali locali in provincia. Altri 100mila euro.
Fermiamoci qui. Tralasciamo altre cene, aperitivi (molto di moda quest’anno), convegni, centinaia di volontari pagati con rimborsi spese e buoni benzina, le radio e tanto altro ancora. Solo così siamo già arrivati alla modesta cifra di mezzo milione di euro e davanti ci sono ancora trenta giorni pieni di insidie, tentazioni ed obblighi.
In Lombardia una legge prevede un tetto di spesa di circa 55.000 euro a candidato e che ogni candidato debba farsi carico anche di una quota delle spese sostenute dalla lista. Significano circa 15/16.000 euro, al nostro candidato rimangono per la sua campagna circa 40.000 euro.
Ed allora, due domande.
- Esiste una legge che stabilisce un tetto di spesa. Chi ne controlla la sua applicazione? Chi e quando applica le eventuali sanzioni?
- Per concorrere ad un seggio di Consigliere regionale in Lombardia occorre un patrimonio, in mancanza, chi presta o regala questi denari ai candidati e perché?
Ma questo è un altro capitolo, seppur, della stessa storia.
La politica degli ultimi decenni ha portato l'Italia ad un sistema maggioritario che costringe i votanti a schierarsi di qua o di là per non sprecare il voto verso formazioni che poi non avranno voce in capitolo (non me ne voglia Casini).
Nel corso dell'ultima riunione del nostro circolo il Prof. Brunelli ha proposto di incentrare i corsi di avviamento al pensiero liberale nelle scuole presentando ai ragazzi la figura del giornalista Indro Montanelli.
L'ho trovata una idea molto brillante e l'ho sostenuta con decisione in quanto ritengo che quell'esempio di figura libera in un mestiere, quello del giornalista, che più di altri spinge al servilismo verso chi ti offre il pane per vivere, merita di essere divulgata tra le giovani generazioni.
Montanelli, quando si avvicina una qualche elezione, diceva di turarsi il naso e di andare a votare in un certo modo.
Voglio provare a far rivivere Montanelli e spiegare perchè oggi c'è ancora da turarsi il naso e andare a votare lo schieramento di centro-destra.
C'è un argomento che per chi si sente liberale assurge a cartina di tornasole per verificare da che parte stare.
Questo argomento è quello della fiscalità
Il precedente Ministro dell'economia Prof. Padoa Schioppa del precedente Governo di centro sinistra rilasciò in televisione una dichiarazione che da quel momento è rimasta impressa nelle menti di tutti gli Italiani "Le tasse sono bellissime".
Noi liberali invece diciamo "le tasse sono odiose ma necessarie e perciò devono corrispondere al minimo indispensabile".
Su questo argomento siamo tutti molto sensibili, ma noi liberali più degli altri.
Finchè la sinistra non smentisce ufficialmente la dichiarazione di Padoa Schioppa e condivide la nostra io credo che non si possa ragionevolmente votare a sinistra.
Lo dico con tutta la stima per le tante persone di sinistra che credono ingenuamente che l'interventismo statale sia un valore aggiunto.
Noi liberali autentici siamo convinti invece che la condizione di minimo stato sia quella più vantaggiosa proprio per le categorie più povere, quelle per intenderci che la sinistra vorrebbe tutelare.
Questo argomento è per noi quello dal quale deriva poi tutto il resto e da cui non si può transigere.
E' vero che il centro destra parla di abbassare le tasse e poi non fa nulla, che parla di introdurre la concorrenza e poi invece di privatizzare i settori più favorevoli ad un regime di mercato, tenta di privatizzare la Protezione Civile che con il mercato non centra un bel nulla.
Per tutte queste ragioni vale il consiglio del buon Montanelli di turarsi il naso e andare a votare chi a parole dice il giusto e poi razzola male rispetto a chi sbaglia anche a parlare.
Per dare una dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, di quanti soldi si potrebbero risparmiare se solo lo si volesse veramente, di quanta parte parte del pubblico erario se ne va in sprechi inutili quando non in veri balzelli occulti, riporto un breve articolo che ho ripreso navigando qua e la su internet (provenienza liberale).
Sono certo che dopo averlo letto tutti arriviamo a stimare che se il bilancio statale (cioè le nostre tasse) fosse ridotto della metà nessuno si accorgerebbe in termini di servizi pubblici.
Provare per credere, scritto da Riccardo Rinaldi.
In previsione delle prossime elezioni regionali, assistiamo ad una serrata campagna di buoni propositi e convinti intendimenti sulla necessità di moralizzare la vita politica, iniziando dal ripulire le liste elettorali.
Attendiamo che si stabilisca se un indagato possa essere candidabile ed, eventualmente, se ciò debba essere disciplinato da una legge o dalla buona volontà dei partiti e che si decida dopo quale grado di giudizio un condannato debba essere escluso dall’elettorato passivo.
Questa premessa, la crisi economica e la quotidianità di milioni di famiglie imporrebbero una campagna elettorale improntata alla sobrietà e alla trasparenza. Mentre il dibattito ferve, la campagna incalza, gli aspiranti consiglieri regionali fremono.
A Milano e nell’ hinterland la faccia sorridente di una signora, con la necessità di comunicare il suo trasferimento ad altro schieramento, fin da gennaio, campeggia sui muri e nelle stazioni della metropolitana dove si è dovuta accollare anche i costi dei diritti di affissione. Tra stampa e messa in opera si tratta di qualche decina di migliaia di euro. E, poverina, la campagna deve ancora iniziare.
Per non parlare delle “megacene” di due candidati , una da 7.500 inviati nei padiglioni della Fiera, l’altra con 4.000 commensali in un grande albergo.
Ed allora, proviamo a far di conto.
Per una cena di 7.500 persone, pur con tutti i favori, gli sconti e gli amici su cui può contare il candidato, vogliamo ipotizzare una spesa di 20 euro a coperto? Una cifra irrisoria, certo, ma tanto per stare al gioco.
Vogliamo aggiungere qualche euro per affittare un padiglione della Fiera (anche qui non mancano gli amici, ma qualcosa dobbiamo pur pagare), per la macchina organizzativa e il personale per gestire e disciplinare il flusso dei 7.500 da mettere a tavola? Un impianto di amplificazione: se il candidato non delinea il roseo futuro, a seguito della sua elezione, che senso avrebbe dar da mangiare a 7.500 bocche? Insomma, questa iniziativa è costata almeno 170/180 mila euro! E la campagna ufficiale non è ancora iniziata. Quante bocche sfamerà il nostro benefattore da qui al 27 marzo?
A questi costi vogliamo aggiungere una dotazione minima di materiale per ‘apparire’? 100.000 manifesti, squadre di volontari per l’affissione, 500.000 santini, 200/300.000 depliant; mega poster da 6x3 metri, vele sui camion, camper che girano la città e i mercati e tanto altro ancora. E poi in televisione possiamo non esserci? Spot per gli ultimi quindici giorni e nelle quattro principali emittenti regionali significano altri 100.000 euro; e alla carta stampata non vogliamo elargire qualche soldo? Un paio di mezze pagine e un paio di pagine intere per gli ultimi giorni di campagna elettorale significano altri 35/40.000 euro. Poi abbiamo i giornali d’area, qualche passaggio sul Corriere, sui free press, sui tanti settimanali locali in provincia. Altri 100mila euro.
Fermiamoci qui. Tralasciamo altre cene, aperitivi (molto di moda quest’anno), convegni, centinaia di volontari pagati con rimborsi spese e buoni benzina, le radio e tanto altro ancora. Solo così siamo già arrivati alla modesta cifra di mezzo milione di euro e davanti ci sono ancora trenta giorni pieni di insidie, tentazioni ed obblighi.
In Lombardia una legge prevede un tetto di spesa di circa 55.000 euro a candidato e che ogni candidato debba farsi carico anche di una quota delle spese sostenute dalla lista. Significano circa 15/16.000 euro, al nostro candidato rimangono per la sua campagna circa 40.000 euro.
Ed allora, due domande.
- Esiste una legge che stabilisce un tetto di spesa. Chi ne controlla la sua applicazione? Chi e quando applica le eventuali sanzioni?
- Per concorrere ad un seggio di Consigliere regionale in Lombardia occorre un patrimonio, in mancanza, chi presta o regala questi denari ai candidati e perché?
Ma questo è un altro capitolo, seppur, della stessa storia.
giovedì 11 febbraio 2010
FEDERALISMO FISCALE
Vi propongo questa intervista al Prof. Luca Ricolfi per introdurre un dibattito sul federalismo fiscale anche sul blog così come qualcuno ha proposto durante gli ultimi due recenti incontri. Riccardo Rinaldi
Il federalismo fiscale, presentato e atteso come una delle più importanti riforme del paese diverrà presto realtà, quando il Governo presenterà i decreti attuativi in materia. Come un fulmine al ciel sereno è però stato pubblicato il libro del sociologo Luca Ricolfi, intitolato Il sacco del Nord che mette in guardia sugli esiti negativi che il federalismo potrebbe portare. Abbiamo quindi chiesto all'autore di spiegarci le sue perplessità.
Professor Ricolfi, leggendo le anticipazioni sul suo libro, lei sembra preoccuparsi degli esiti possibili negativi del federalismo ancor prima che i decreti attuativi della legge delega prendano forma. Perché?
Per due motivi. Il primo è che il federalismo parte senza una base di dati condivisa, con conti pubblici poco trasparenti (si pensi a quelli delle Asl) e gravissimi ritardi nell’aggiornamento dei dati. Basti pensare che il mio libro è uscito quest'anno, ma la maggior parte delle stime presentate fotografano la situazione del 2006, l’anno più recente per cui si dispone di una base statistica completa. Questo ritardo dei dati non è gravissimo per un lavoro scientifico, perché i dati di fondo non cambiano rapidamente, ma è inaccettabile per un processo politico: le singole Regioni e i singoli Enti locali non possono essere premiati e puniti sulla base dei loro conti di 3 o 4 anni prima.
Come mai questa situazione?
Perché in un decennio (la riforma del titolo V risale a dieci anni fa) non si è riusciti a riformare e velocizzare i conti pubblici territoriali. Un punto questo su cui Tremonti e Padoa Schioppa hanno insistito più volte, ma su cui finora - a mio parere - si è fatto troppo poco.
Qual è invece la seconda ragione delle sue preoccupazioni cui accennava prima?
Ho letto attentamente la legge 42 del 2009 e penso che non possa funzionare, è troppo macchinosa e ambigua sui punti cruciali.
Lei ha detto che il federalismo è una soluzione per rimediare a sprechi e inefficienze, ma solo sulla carta. Perché?
I principi di base della legge sono condivisibili, ma in questo genere di materie i dettagli sono tutto. E i dettagli sono terrificanti, già solo per l’oscurità del linguaggio in cui la legge è formulata.
Quali sarebbero allora i requisiti per far funzionare a dovere la riforma federale?
Ci sono requisiti ovvi ma su cui non si può intervenire direttamente, primo fra tutti lo spirito civico, che significa anche abitudine a esercitare la protesta (voice, come la chiama Hirshman), che è il modo più efficace di costringere gli amministratori pubblici alla virtù. Ma il punto chiave è di tipo politico-comunicativo: le regole devono essere chiare, enunciate solennemente, e applicate inflessibilmente. Basta un solo episodio di ripianamento del deficit di un comune (si pensi al caso di Catania) da parte dello Stato centrale per mandare il messaggio sbagliato e demoralizzare gli amministratori onesti.
Di chi è la colpa del malfunzionamento del sistema Italia e dell’abisso economico e produttivo tra Nord e Sud visto finora?
Le colpe sono anche dei cittadini, l’Italia è da anni un paese “seduto”, in cui la laboriosità sta diventando una merce rara. Gli immigrati regolari, lentamente ma inesorabilmente, stanno diventando la spina dorsale del Paese, mentre gli italiani appaiono sempre meno capaci di iniziativa, di sacrificio, di umiltà. Quanto al divario Nord-Sud le colpe sono soprattutto delle classi dirigenti del Paese, che prima hanno depredato il Sud, poi l’hanno risarcito nel modo peggiore, con tanto assistenzialismo e nessun autonomia. Come un cattivo genitore, ad esempio un contadino, che prima sfrutta il lavoro dei figli nei campi e poi, quando sono adulti, vieta loro di trasferirsi in città.
L’intero paese è oppresso dal debito pubblico, che ha recentemente costretto il capo del governo ad un dietrofront sulla riforma fiscale. Qual è il vero problema della pressione fiscale nel nostro paese?
Il primo problema è che il nero è volutamente tollerato dalle autorità, perché l’economia sommersa è al tempo stesso una fonte di profitti e un potente ammortizzatore sociale. Inoltre l’evasione fiscale è molto più intensa nel Mezzogiorno, specie nelle regioni ad alto insediamento della criminalità organizzata: combattere seriamente il nero significherebbe alzare il livello dello scontro con le mafie, un passo che nessun governo ha finora avuto la forza di compiere.
Come dovrà essere e cosa dovrà fare una riforma fiscale per essere efficace?
Non ho le idee chiarissime su questo punto, perché non l’ho ancora studiato a sufficienza (soprattutto in termini di simulazione degli effetti). Per quel che riesco a vedere, i problemi più gravi del nostro sistema fiscale sono quattro: l’eccessiva complessità; la tassazione separata delle rendite finanziarie, specie per quanto riguarda i titoli di Stato; il peso eccessivo dell’imposizione sulle imprese; il peso troppo basso delle imposte indirette e sul patrimonio. A mio parere una buona riforma fiscale dovrebbe spostare il prelievo sui consumi e sui patrimoni, alleggerire le imposte sui produttori (Irap e Ires), vietare la tassazione separata dei redditi di origine finanziaria.
Perché la tassazione delle rendite finanziarie è un problema?
Ci si stupisce tanto che ci siano pochissimi super-ricchi in base alle dichiarazioni Irpef, ma ci si dimentica che un soggetto che incassa 100 mila euro l’anno grazie al possesso d titoli di stato non è tenuto a dichiarare nemmeno 1 euro, visto che i suoi redditi sono tassati alla fonte con la ridicola aliquota del 12.5%.
E perché la soluzione dovrebbe essere spostare la tassazione sui consumi?
So che le imposte sui consumi (come l’Iva) non piacciono ai sindacati, perché si osserva, correttamente, che sono regressive (i poveri consumano una quota del loro reddito maggiore di quella dei ricchi). Si trascura però un punto fondamentale per un paese che ha tanto nero e tanta economia criminale come l’Italia: le imposte sui consumi sono le uniche che vengono pagate anche dagli evasori totali e dalla criminalità organizzata. Senza contare i benefici sulla bilancia dei pagamenti, visto che l’Iva colpisce le importazioni ma non le esportazioni.
Nella sua analisi il tenore di vita ha un ruolo fondamentale. Perché?
È semplice: perché il tenore di vita medio del Sud è molto più alto di quanto si crede, e questo sia a causa del più basso livello dei prezzi, sia a causa della maggiore quantità di tempo libero. Una delle tesi centrali del Sacco del Nord è che il divario Nord-Sud esiste ed è molto ampio in termini di reddito prodotto, ma si riduce drasticamente se consideriamo il potere di acquisto del reddito disponibile, e addirittura si capovolge in un vantaggio del Sud se nel calcolo includiamo il tempo libero. È questa la ragione di fondo per cui il Mezzogiorno accetta lo status quo: questo assetto dei rapporti fra Nord e Sud è il solo che gli permette di vivere (ampiamente) al di sopra dei propri mezzi.
Il federalismo fiscale, presentato e atteso come una delle più importanti riforme del paese diverrà presto realtà, quando il Governo presenterà i decreti attuativi in materia. Come un fulmine al ciel sereno è però stato pubblicato il libro del sociologo Luca Ricolfi, intitolato Il sacco del Nord che mette in guardia sugli esiti negativi che il federalismo potrebbe portare. Abbiamo quindi chiesto all'autore di spiegarci le sue perplessità.
Professor Ricolfi, leggendo le anticipazioni sul suo libro, lei sembra preoccuparsi degli esiti possibili negativi del federalismo ancor prima che i decreti attuativi della legge delega prendano forma. Perché?
Per due motivi. Il primo è che il federalismo parte senza una base di dati condivisa, con conti pubblici poco trasparenti (si pensi a quelli delle Asl) e gravissimi ritardi nell’aggiornamento dei dati. Basti pensare che il mio libro è uscito quest'anno, ma la maggior parte delle stime presentate fotografano la situazione del 2006, l’anno più recente per cui si dispone di una base statistica completa. Questo ritardo dei dati non è gravissimo per un lavoro scientifico, perché i dati di fondo non cambiano rapidamente, ma è inaccettabile per un processo politico: le singole Regioni e i singoli Enti locali non possono essere premiati e puniti sulla base dei loro conti di 3 o 4 anni prima.
Come mai questa situazione?
Perché in un decennio (la riforma del titolo V risale a dieci anni fa) non si è riusciti a riformare e velocizzare i conti pubblici territoriali. Un punto questo su cui Tremonti e Padoa Schioppa hanno insistito più volte, ma su cui finora - a mio parere - si è fatto troppo poco.
Qual è invece la seconda ragione delle sue preoccupazioni cui accennava prima?
Ho letto attentamente la legge 42 del 2009 e penso che non possa funzionare, è troppo macchinosa e ambigua sui punti cruciali.
Lei ha detto che il federalismo è una soluzione per rimediare a sprechi e inefficienze, ma solo sulla carta. Perché?
I principi di base della legge sono condivisibili, ma in questo genere di materie i dettagli sono tutto. E i dettagli sono terrificanti, già solo per l’oscurità del linguaggio in cui la legge è formulata.
Quali sarebbero allora i requisiti per far funzionare a dovere la riforma federale?
Ci sono requisiti ovvi ma su cui non si può intervenire direttamente, primo fra tutti lo spirito civico, che significa anche abitudine a esercitare la protesta (voice, come la chiama Hirshman), che è il modo più efficace di costringere gli amministratori pubblici alla virtù. Ma il punto chiave è di tipo politico-comunicativo: le regole devono essere chiare, enunciate solennemente, e applicate inflessibilmente. Basta un solo episodio di ripianamento del deficit di un comune (si pensi al caso di Catania) da parte dello Stato centrale per mandare il messaggio sbagliato e demoralizzare gli amministratori onesti.
Di chi è la colpa del malfunzionamento del sistema Italia e dell’abisso economico e produttivo tra Nord e Sud visto finora?
Le colpe sono anche dei cittadini, l’Italia è da anni un paese “seduto”, in cui la laboriosità sta diventando una merce rara. Gli immigrati regolari, lentamente ma inesorabilmente, stanno diventando la spina dorsale del Paese, mentre gli italiani appaiono sempre meno capaci di iniziativa, di sacrificio, di umiltà. Quanto al divario Nord-Sud le colpe sono soprattutto delle classi dirigenti del Paese, che prima hanno depredato il Sud, poi l’hanno risarcito nel modo peggiore, con tanto assistenzialismo e nessun autonomia. Come un cattivo genitore, ad esempio un contadino, che prima sfrutta il lavoro dei figli nei campi e poi, quando sono adulti, vieta loro di trasferirsi in città.
L’intero paese è oppresso dal debito pubblico, che ha recentemente costretto il capo del governo ad un dietrofront sulla riforma fiscale. Qual è il vero problema della pressione fiscale nel nostro paese?
Il primo problema è che il nero è volutamente tollerato dalle autorità, perché l’economia sommersa è al tempo stesso una fonte di profitti e un potente ammortizzatore sociale. Inoltre l’evasione fiscale è molto più intensa nel Mezzogiorno, specie nelle regioni ad alto insediamento della criminalità organizzata: combattere seriamente il nero significherebbe alzare il livello dello scontro con le mafie, un passo che nessun governo ha finora avuto la forza di compiere.
Come dovrà essere e cosa dovrà fare una riforma fiscale per essere efficace?
Non ho le idee chiarissime su questo punto, perché non l’ho ancora studiato a sufficienza (soprattutto in termini di simulazione degli effetti). Per quel che riesco a vedere, i problemi più gravi del nostro sistema fiscale sono quattro: l’eccessiva complessità; la tassazione separata delle rendite finanziarie, specie per quanto riguarda i titoli di Stato; il peso eccessivo dell’imposizione sulle imprese; il peso troppo basso delle imposte indirette e sul patrimonio. A mio parere una buona riforma fiscale dovrebbe spostare il prelievo sui consumi e sui patrimoni, alleggerire le imposte sui produttori (Irap e Ires), vietare la tassazione separata dei redditi di origine finanziaria.
Perché la tassazione delle rendite finanziarie è un problema?
Ci si stupisce tanto che ci siano pochissimi super-ricchi in base alle dichiarazioni Irpef, ma ci si dimentica che un soggetto che incassa 100 mila euro l’anno grazie al possesso d titoli di stato non è tenuto a dichiarare nemmeno 1 euro, visto che i suoi redditi sono tassati alla fonte con la ridicola aliquota del 12.5%.
E perché la soluzione dovrebbe essere spostare la tassazione sui consumi?
So che le imposte sui consumi (come l’Iva) non piacciono ai sindacati, perché si osserva, correttamente, che sono regressive (i poveri consumano una quota del loro reddito maggiore di quella dei ricchi). Si trascura però un punto fondamentale per un paese che ha tanto nero e tanta economia criminale come l’Italia: le imposte sui consumi sono le uniche che vengono pagate anche dagli evasori totali e dalla criminalità organizzata. Senza contare i benefici sulla bilancia dei pagamenti, visto che l’Iva colpisce le importazioni ma non le esportazioni.
Nella sua analisi il tenore di vita ha un ruolo fondamentale. Perché?
È semplice: perché il tenore di vita medio del Sud è molto più alto di quanto si crede, e questo sia a causa del più basso livello dei prezzi, sia a causa della maggiore quantità di tempo libero. Una delle tesi centrali del Sacco del Nord è che il divario Nord-Sud esiste ed è molto ampio in termini di reddito prodotto, ma si riduce drasticamente se consideriamo il potere di acquisto del reddito disponibile, e addirittura si capovolge in un vantaggio del Sud se nel calcolo includiamo il tempo libero. È questa la ragione di fondo per cui il Mezzogiorno accetta lo status quo: questo assetto dei rapporti fra Nord e Sud è il solo che gli permette di vivere (ampiamente) al di sopra dei propri mezzi.
mercoledì 3 febbraio 2010
Ritorniamo a votare: come e per cosa?
L’ennesima campagna elettorale sta partendo, si vota per le Regioni questa volta! Gli sfidanti iniziano ad affilare le armi e a definire le strategie di comunicazione. Le città iniziano ad essere tappezzate di manifesti, facce, loghi, slogan. Le TV iniziano a mettere in mostra i concorrenti, non tutti però, solo alcuni. Poi arriveranno gli incontri elettorali, le cene, gli inviti al voto via posta, il volantinaggio per le strade…. E’ questo il momento fondamentale, dove i partiti e i candidati possono discutere con gli elettori dei problemi e delle soluzioni affidate alla politica e alle pubbliche amministrazioni. E’ il momento per fare il bilancio di quanto fatto da chi ha governato ed ha gestito il potere, e di chi è stato all’opposizione e ha controllato i governanti. E’ il momento per dirla con Luigi Einaudi del conoscere per deliberare.
Eppure…qualcosa non funziona. Il mercato elettorale non è veramente libero, l’asimmetria informativa è molto elevata. L’esito del voto, anche in caso di cambio di maggioranza, spesso non cambia le scelte politiche di fondo. I costi delle campagne elettorali sono elevati, il rimborso per i partiti che riescono a “qualificarsi” con degli eletti li compensano in maniera più che proporzionale, e gli altri non prendono niente. Si attivano anche dei meccanismi, antichi come la democrazia, già illustrati da Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca all’inizio del secolo scorso, ed esemplificati in un articolo di Sergio Rizzo sul Corriere della Sera (http://laderiva.corriere.it/2010/02/03/index.html)
Esistono, volendo semplificare, “due Italie”: da una parte le regioni del centro nord che pur avendo gli stessi problemi di governo nazionale, e pur con grosse difficoltà, riescono in qualche modo a tenere il passo con le altre aree sviluppate dell’occidente. Dall’altra parte le regioni del centro sud che si allontanano da quelle del nord per sviluppo economico, servizi pubblici, sicurezza. E quindi ancor di più si allontanano dagli altri paesi dell’occidente industrializzato. Ora, in queste regioni del centro sud, sono in pochi a credere che questa tornata elettorale possa cambiare qualcosa.
Forse, da una parte, si spera troppo nella mano pubblica, e quindi si dispera quando questa non crea ricchezza duratura, ma si limita a distribuire ricchezza prodotta altrove attraverso meccanismi assistenziali o peggio clientelari. Forse, ma sono due facce della stessa medaglia, la “mano invisibile” di Smith, e lo sviluppo dell’economia privata (se escludiamo quella illegale) è inesistente, annichilita da anni di assistenzialismo e di assenza della politica nell’affermazione della legalità e lo stato di diritto. Fatto sta che quale che sia il colore politico che ha governato tali regioni (un esempio per tutte la Campania) le cose sono solo peggiorate.
Cosa sta succedendo adesso mentre si chiude una legislatura regionale? Cosa succederà dopo la tornata elettorale? Vorranno i nuovi governanti locali ridurre le entrate dallo Stato da redistribuire a propria discrezione sui propri elettori? Vorranno i nuovi governanti fare in modo che i contributi all’innovazione tecnologica e i fondi stanziati dall’U.E. per le aree depresse vengano impiegati in maniera produttiva e non distribuiti a pioggia senza alcun controllo reale? Opereranno i nuovi governanti delle Regioni per migliorare i livelli di servizio pubblico, in particolare quello della sanità che vede in tutte le classifiche, le strutture del centro Sud agli ultimi posti per qualità del servizio e per costi sostenuti? Quest’ultimo indicatore è particolarmente significativo, perché mentre per lo sviluppo economico si deve fare i conti con il passato, con la cultura imprenditoriale, con la presenza di infrastrutture, la vicinanza ai mercati e tante altre variabili, questo non vale per la sanità. Questa viene finanziata quasi completamente con i soldi dell’erario, sia per le strutture di accoglienza che nella formazione degli operatori sanitari (medici e infermieri) che generalmente si laureano in università pubbliche. Come è possibile ci sia una così grande differenza tra il servizio sanitario nelle regioni del Centro Sud rispetto a quello delle regioni del Centro Nord? Credo che se troviamo una risposta a questo quesito potremmo trovare la soluzione per il rilancio del nostro Mezzogiorno. (di Claudio Ferretti)
Eppure…qualcosa non funziona. Il mercato elettorale non è veramente libero, l’asimmetria informativa è molto elevata. L’esito del voto, anche in caso di cambio di maggioranza, spesso non cambia le scelte politiche di fondo. I costi delle campagne elettorali sono elevati, il rimborso per i partiti che riescono a “qualificarsi” con degli eletti li compensano in maniera più che proporzionale, e gli altri non prendono niente. Si attivano anche dei meccanismi, antichi come la democrazia, già illustrati da Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca all’inizio del secolo scorso, ed esemplificati in un articolo di Sergio Rizzo sul Corriere della Sera (http://laderiva.corriere.it/2010/02/03/index.html)
Esistono, volendo semplificare, “due Italie”: da una parte le regioni del centro nord che pur avendo gli stessi problemi di governo nazionale, e pur con grosse difficoltà, riescono in qualche modo a tenere il passo con le altre aree sviluppate dell’occidente. Dall’altra parte le regioni del centro sud che si allontanano da quelle del nord per sviluppo economico, servizi pubblici, sicurezza. E quindi ancor di più si allontanano dagli altri paesi dell’occidente industrializzato. Ora, in queste regioni del centro sud, sono in pochi a credere che questa tornata elettorale possa cambiare qualcosa.
Forse, da una parte, si spera troppo nella mano pubblica, e quindi si dispera quando questa non crea ricchezza duratura, ma si limita a distribuire ricchezza prodotta altrove attraverso meccanismi assistenziali o peggio clientelari. Forse, ma sono due facce della stessa medaglia, la “mano invisibile” di Smith, e lo sviluppo dell’economia privata (se escludiamo quella illegale) è inesistente, annichilita da anni di assistenzialismo e di assenza della politica nell’affermazione della legalità e lo stato di diritto. Fatto sta che quale che sia il colore politico che ha governato tali regioni (un esempio per tutte la Campania) le cose sono solo peggiorate.
Cosa sta succedendo adesso mentre si chiude una legislatura regionale? Cosa succederà dopo la tornata elettorale? Vorranno i nuovi governanti locali ridurre le entrate dallo Stato da redistribuire a propria discrezione sui propri elettori? Vorranno i nuovi governanti fare in modo che i contributi all’innovazione tecnologica e i fondi stanziati dall’U.E. per le aree depresse vengano impiegati in maniera produttiva e non distribuiti a pioggia senza alcun controllo reale? Opereranno i nuovi governanti delle Regioni per migliorare i livelli di servizio pubblico, in particolare quello della sanità che vede in tutte le classifiche, le strutture del centro Sud agli ultimi posti per qualità del servizio e per costi sostenuti? Quest’ultimo indicatore è particolarmente significativo, perché mentre per lo sviluppo economico si deve fare i conti con il passato, con la cultura imprenditoriale, con la presenza di infrastrutture, la vicinanza ai mercati e tante altre variabili, questo non vale per la sanità. Questa viene finanziata quasi completamente con i soldi dell’erario, sia per le strutture di accoglienza che nella formazione degli operatori sanitari (medici e infermieri) che generalmente si laureano in università pubbliche. Come è possibile ci sia una così grande differenza tra il servizio sanitario nelle regioni del Centro Sud rispetto a quello delle regioni del Centro Nord? Credo che se troviamo una risposta a questo quesito potremmo trovare la soluzione per il rilancio del nostro Mezzogiorno. (di Claudio Ferretti)
domenica 31 gennaio 2010
SANT'AGOSTINO E IL LIBERO ARBITRIO
Nell'incontro di venerdì Claudio Pietroni ha introdotto casualmente il concetto di libero arbitrio.
Poco dopo io, del tutto casualmente ho ricordato ai presenti che domenica, in televisione avrebbero proposto in due puntate (anche lunedì) lo sceneggiato Sant'Agostino.
Le due cose sono state veramente casuali ma io con questo scritto voglio suggerire che la casualità talvolta ha un senso logico.
Infatti le due cose sono strettamente legate tra loro e rappresentano le fondamenta del pensiero cristiano ed anche in qualche modo il punto d'incotro tra pensiero religioso (trascendente) e pensiero liberale (immanente).
La questione sta in questi termini.
Fin dalle origini i Cristiani si sono domandati se l'uomo possiede la libertà di essere buono o cattivo e quindi se possiede in se la forza per scegliere il bene.
La questione si è trascinata per quattro secoli tra dispute varie finchè è giunta fino a Agostino, Vescovo di Ippona, che tra le tante cose importanti che ha scritto (la sua Opera Omnia è veramente monumentale ed è stata raccolta solo di recente) ha anche inscenato una disputa feroce con tale Pelagio che all'epoca andava asserendo che l'uomo è libero in proprio di scegliere il bene anzichè il male e che dipende da lui e da lui solo.
Agostino, che il male l'aveva ben conosciuto in vita sua e lo vedrete stasera nello sceneggiato, rispondeva rifacendosi a San Paolo che in molti punti delle sue Lettere sembrava asserire il contrario.
Rifacendosi al Nuovo Testamento e alle parole del Vangelo, Agostino interpretava San Paolo fino a concludere che l'uomo è pervaso dal peccato, da quella che lui chiamava concupiscenza, e che non aveva e non ha in se la potenza di agire diversamente da un peccatore.
Da ciò nasceva il concetto di Grazia che era l'unica potenza, di origine divina capace di sollevare l'uomo peccatore ed aiutarlo a pentirsi e disporsi al bene.
Ne discendeva che Dio perdonava l'uomo del suo essere peccatore attraverso lo strumento della giustificazione che cadeva su tutti coloro che si predisponevano all'amore di Dio con spirito contrito, con le preghiere e con le opere.
Cioè è la fede che salva l'uomo perchè l'uomo da solo non sarebbe in grado di salvarsi.
Certo la tesi non è così favorevole per l'uomo in quanto non è solo a parole, cioè solo dichiarandosi peccatore che si salva l'uomo.
E' necessario conoscere la propria reale identità col peccato, accettare la tesi che si è peccatori anche se non si sembra, divenire peccatore "spiritualmente".
Tutto ciò comporta il rifiuto a considerare giuste e buone le proprie opere e di riporre in esse fiducia.
Le opere non salvano, ma hanno un valore preparatorio e assomigliano a una preghiera, umile e fiduciosa rivolta a Dio, perchè renda giusto l'uomo peccatore.
Tuttavia Dio giustifica l'uomo, non per le opere, ma gratuitamente, per quello che egli stesso ha ispirato e guidato nel cuore.
L'uomo, riconoscendo la propria realtà di peccato, riceve il dono di Dio e viene trasformato dalla parola in creatura nuova.
Agostino nelle sue opere prende posizione contro la scuola Pelagiana e fa sterzare la Chiesa verso una impostazione che poi ne ha determinato il corso teologico.
Infatti Martin Lutero nel 1500 riprende il pensiero di Agostino (Lutero era un monaco Agostiniano) e nelle sue 95 tesi che affigge alla porta della cattedrale di Wittenberg riprende e rafforza il concetto assieme naturalmente a molte altre considerazioni sulla necessità di riformare la Chiesa del tempo.
Anzi fa di più, poco tempo dopo scrive un libro intitolato "De servo arbitrio" in antitesi con il libro scritto da Erasmo da Rotterdam intitolato "De libero arbitrio" il quale, per conto della Chiesa di allora, intendeva rintuzzare le tesi affisse al portone della cattedrale.
Como è noto quell'episodio fu l'inizio della riforma Luterana e diede avvio a quello che va sotto il nome di Protestantesimo.
Poco dopo sarebbe avvenuto il Concilio di Trento che avrebbe tentato, senza riuscirvi, di far conciliare le diverse opinioni a confrotno.
Per aggiornare al massimo il resoconto sull'argomento mi consta riferire che recentemente c'è stato un passo importante di riavvicinamento tra la Chiesa Cattolica e quella Protestante sul punto in questione.
Ad Augusta, il 31 ottobre 1999, è stata firmata una dichiarazione congiunta della Chiesa Cattolica e della Federazione Luterana Mondiale sulla dottrina della giustificazione che rappresenta un primo passo importante verso la riunificazione tra cattolicesimo e protestantesimo.
Invito tutti a leggerla in quanto potrebbe essere un passo molto importante al quale noi contemporanei abbiamo partecipato senza probabilmente esserne a conoscenza.
A noi liberali tutta questa storia insegna ancor più di tenere distinto il pensiero religioso da quello liberale.
Infatti sembrerebbe che il liberalismo debba spingere a pensare con Pelagio e con Erasmo da Rotterdam che l'uomo è veramente libero di scegliere e fare tanto il bene quanto il male, di possedere cioè come diceva Claudio Pietroni l'altro giorno il libero arbitrio.
Ma attenzione la questione è più sottile.
Il pensiero liberale dice che l'uomo è puro egoismo (peccatore), ma che perseguendo il suo egoismo in libertà è in grado di apportare un beneficio concreto a tutta l'umanità in termini di ricchezza e benessere, cioè in termini di felicità umana.
Naturalmente nel rispetto del principio di non recare mai danno agli altri, cioè essendo fondamentalmente giusto nelle sue azioni.
Questa apparente contraddizione ci fa ancor più ritenere che, come dicevo in un mio precedente scritto, che si può essere contemporaneamente buoni Cristiani e buoni liberali assieme, ma non nel nome del libero arbitrio quanto nel nome della distinzione tra regno terreno e regno dei cieli.
Tutto ciò fa comprendere perchè l'altra sera mi sono permesso di dire che i tre principali padri della Chiesa Cristiana (attenzione ho detto Cristiana e non Cattolica) sono San Paolo, Agostino e Lutero.
Auguro a tutti di gustarsi questa sera e domani sera lo sceneggiato su Sant'Agostino, con la convinzione che si tratta di un'opera da non perdere in quanto questo grande Santo ha veramente segnato il corso della storia umana e di tutto il pensiero occidentale fino ai giorni nostri.
Scritto da Riccardo Rinaldi
Poco dopo io, del tutto casualmente ho ricordato ai presenti che domenica, in televisione avrebbero proposto in due puntate (anche lunedì) lo sceneggiato Sant'Agostino.
Le due cose sono state veramente casuali ma io con questo scritto voglio suggerire che la casualità talvolta ha un senso logico.
Infatti le due cose sono strettamente legate tra loro e rappresentano le fondamenta del pensiero cristiano ed anche in qualche modo il punto d'incotro tra pensiero religioso (trascendente) e pensiero liberale (immanente).
La questione sta in questi termini.
Fin dalle origini i Cristiani si sono domandati se l'uomo possiede la libertà di essere buono o cattivo e quindi se possiede in se la forza per scegliere il bene.
La questione si è trascinata per quattro secoli tra dispute varie finchè è giunta fino a Agostino, Vescovo di Ippona, che tra le tante cose importanti che ha scritto (la sua Opera Omnia è veramente monumentale ed è stata raccolta solo di recente) ha anche inscenato una disputa feroce con tale Pelagio che all'epoca andava asserendo che l'uomo è libero in proprio di scegliere il bene anzichè il male e che dipende da lui e da lui solo.
Agostino, che il male l'aveva ben conosciuto in vita sua e lo vedrete stasera nello sceneggiato, rispondeva rifacendosi a San Paolo che in molti punti delle sue Lettere sembrava asserire il contrario.
Rifacendosi al Nuovo Testamento e alle parole del Vangelo, Agostino interpretava San Paolo fino a concludere che l'uomo è pervaso dal peccato, da quella che lui chiamava concupiscenza, e che non aveva e non ha in se la potenza di agire diversamente da un peccatore.
Da ciò nasceva il concetto di Grazia che era l'unica potenza, di origine divina capace di sollevare l'uomo peccatore ed aiutarlo a pentirsi e disporsi al bene.
Ne discendeva che Dio perdonava l'uomo del suo essere peccatore attraverso lo strumento della giustificazione che cadeva su tutti coloro che si predisponevano all'amore di Dio con spirito contrito, con le preghiere e con le opere.
Cioè è la fede che salva l'uomo perchè l'uomo da solo non sarebbe in grado di salvarsi.
Certo la tesi non è così favorevole per l'uomo in quanto non è solo a parole, cioè solo dichiarandosi peccatore che si salva l'uomo.
E' necessario conoscere la propria reale identità col peccato, accettare la tesi che si è peccatori anche se non si sembra, divenire peccatore "spiritualmente".
Tutto ciò comporta il rifiuto a considerare giuste e buone le proprie opere e di riporre in esse fiducia.
Le opere non salvano, ma hanno un valore preparatorio e assomigliano a una preghiera, umile e fiduciosa rivolta a Dio, perchè renda giusto l'uomo peccatore.
Tuttavia Dio giustifica l'uomo, non per le opere, ma gratuitamente, per quello che egli stesso ha ispirato e guidato nel cuore.
L'uomo, riconoscendo la propria realtà di peccato, riceve il dono di Dio e viene trasformato dalla parola in creatura nuova.
Agostino nelle sue opere prende posizione contro la scuola Pelagiana e fa sterzare la Chiesa verso una impostazione che poi ne ha determinato il corso teologico.
Infatti Martin Lutero nel 1500 riprende il pensiero di Agostino (Lutero era un monaco Agostiniano) e nelle sue 95 tesi che affigge alla porta della cattedrale di Wittenberg riprende e rafforza il concetto assieme naturalmente a molte altre considerazioni sulla necessità di riformare la Chiesa del tempo.
Anzi fa di più, poco tempo dopo scrive un libro intitolato "De servo arbitrio" in antitesi con il libro scritto da Erasmo da Rotterdam intitolato "De libero arbitrio" il quale, per conto della Chiesa di allora, intendeva rintuzzare le tesi affisse al portone della cattedrale.
Como è noto quell'episodio fu l'inizio della riforma Luterana e diede avvio a quello che va sotto il nome di Protestantesimo.
Poco dopo sarebbe avvenuto il Concilio di Trento che avrebbe tentato, senza riuscirvi, di far conciliare le diverse opinioni a confrotno.
Per aggiornare al massimo il resoconto sull'argomento mi consta riferire che recentemente c'è stato un passo importante di riavvicinamento tra la Chiesa Cattolica e quella Protestante sul punto in questione.
Ad Augusta, il 31 ottobre 1999, è stata firmata una dichiarazione congiunta della Chiesa Cattolica e della Federazione Luterana Mondiale sulla dottrina della giustificazione che rappresenta un primo passo importante verso la riunificazione tra cattolicesimo e protestantesimo.
Invito tutti a leggerla in quanto potrebbe essere un passo molto importante al quale noi contemporanei abbiamo partecipato senza probabilmente esserne a conoscenza.
A noi liberali tutta questa storia insegna ancor più di tenere distinto il pensiero religioso da quello liberale.
Infatti sembrerebbe che il liberalismo debba spingere a pensare con Pelagio e con Erasmo da Rotterdam che l'uomo è veramente libero di scegliere e fare tanto il bene quanto il male, di possedere cioè come diceva Claudio Pietroni l'altro giorno il libero arbitrio.
Ma attenzione la questione è più sottile.
Il pensiero liberale dice che l'uomo è puro egoismo (peccatore), ma che perseguendo il suo egoismo in libertà è in grado di apportare un beneficio concreto a tutta l'umanità in termini di ricchezza e benessere, cioè in termini di felicità umana.
Naturalmente nel rispetto del principio di non recare mai danno agli altri, cioè essendo fondamentalmente giusto nelle sue azioni.
Questa apparente contraddizione ci fa ancor più ritenere che, come dicevo in un mio precedente scritto, che si può essere contemporaneamente buoni Cristiani e buoni liberali assieme, ma non nel nome del libero arbitrio quanto nel nome della distinzione tra regno terreno e regno dei cieli.
Tutto ciò fa comprendere perchè l'altra sera mi sono permesso di dire che i tre principali padri della Chiesa Cristiana (attenzione ho detto Cristiana e non Cattolica) sono San Paolo, Agostino e Lutero.
Auguro a tutti di gustarsi questa sera e domani sera lo sceneggiato su Sant'Agostino, con la convinzione che si tratta di un'opera da non perdere in quanto questo grande Santo ha veramente segnato il corso della storia umana e di tutto il pensiero occidentale fino ai giorni nostri.
Scritto da Riccardo Rinaldi
lunedì 25 gennaio 2010
UN AUTORE LA CUI LIBERALITA' E' POCO CONOSCIUTA
Di liberali Italiani che hanno fama internazionale non abbondiamo a parte il nostro Bruno Leoni.
Ma a saperlo ben leggere ci si accorge che Vilfredo Pareto nato e vissuto a cavallo dell'ottocento e novecento mostra scorci di pensiero liberale interessanti e degni di rivalutazione postuma.
Con piacere riporto qui alcune pagine Paretiane che erano sfuggite alle Letture Liberali da noi affrontate tra il 2008 e il 2009 e che forse valeva la pena non avessimo tralasciato (Riccardo Rinaldi).
“Le diverse classi economiche hanno degli interessi diversi. Ciò risulta dalla natura stessa delle cose. E’ ben evidente che un semplice operaio non ha gli stessi interessi economici di un grande proprietario terriero o del possessore d’un grande patrimonio mobiliare. In fatto di imposte ogni classe cerca di riversarne quanto più possibile il peso sulle altre. In fatto di spese pubbliche ogni classe cerca che sieno effettuate a proprio favore.
I socialisti hanno dunque interamente ragione nell’attribuire una grande importanza alla lotta delle classi e di affermare che è questo il gran fatto che domina la storia. Da tal punto di vista le opere di K. Marx e del Loria sono degne della più grande attenzione.
La lotta delle classi assume due forme note in tutti i tempi. L’una non è altro che la concorrenza economica. Abbiamo visto che quando è libera, questa concorrenza produce il massimo di ofelimità. Ogni classe, come ogni individuo, pur non avendo di mira che il proprio vantaggio, viene indirettamente ad essere utile alle altre. Ancor più. Poiché non distrugge, ma produce ricchezza, questa concorrenza contribuisce indirettamente a fare aumentare il livello del reddito minimo e a diminuire la disuguaglianza dei redditi.
L’altra forma della lotta delle classi è quella, per cui ogni classe si sforza d’impossessarsi del governo per farne una macchina con cui spogliare le altre. La lotta che intraprendono certi individui per appropriarsi la ricchezza prodotta da altri è il gran fatto che domina tutta la storia dell’umanità. Si cela e si asconde con i pretesti più vari, che hanno spesso tratto in inganno gli storici. Si può perfino dire che è soltanto nella nostra epoca che la verità è affiorata.
La classe dominante non si limita semplicemente a recare un danno diretto alle classi ch’essa spoglia; reca danno pure a tutta quanta la nazione: poiché la spogliazione è di solito accompagnata da una distribuzione di ricchezza, spesso assai considerevole, il reddito minimo deve abbassarsi e la disuguaglianza dei redditi deve aumentare.
Dal punto di vista, poco importa che la classe dominante sia una oligarchia o una plutocrazia o una democrazia. Si può dire soltanto che, sebbene vi sieno delle eccezioni, quanto più questa classe è numerosa, tanto più intensi sono i mali che risultano dalla sua dominazione, perché una classe numerosa consuma una quantità di ricchezza maggiore di quella che consuma una classe più circoscritta. E’ questa probabilmente la causa che fa sì che il regime demagogico abbia sempre avuto una durata ben minore dei regimi tirannici ed oligarchici. Sarà questo probabilmente pure il grande ostacolo che si opporrà all’instaurazione del socialismo del popolo. Il socialismo borghese, che si esplica per mezzo della protezione doganale, dei premi di esportazione e della falsificazione della moneta, ecc. ha, a proprio favore, la circostanza che ha un minor numero di aderenti da soddisfare. Ha dunque modo di arricchirli senza distruggere interamente la ricchezza del paese.
Parecchi autori confondono due questioni assolutamente diverse: quella della esistenza d’una classe dominante e quella del modo con cui se ne reclutano i membri. A questi autori pare che, quando la classe dominata ha il diritto di scegliere secondo un certo modo di elezione i suoi padroni, non ha più nulla da desiderare e deve reputarsi perfettamente felice e fortunata. Non passa loro in mente che sarebbe forse più utile evitare qualsiasi spogliazione anziché limitarsi a determinare a profitto di chi la spogliazione dovrà essere esercitata.
E’ certo che, quando i membri della classe dominante sono reclutati per eredità o per cooptazione, il giogo ch’essa esercita è più odioso di quanto accada quando i membri sono reclutati per elezione, ma non ne segue affatto che tale giogo risulti anche più grave. Non è dimostrato per nulla che un governo oligarchico avrebbe potuto essere più disonesto di quanto lo fu la municipalità di New York eletta col suffragio universale. Il popolo della Toscana era più felice e meno spogliato sotto il governo assoluto di Pietro Leopoldo di quanto lo sia ora sotto l’attuale governo costituzionale. Nella nostra epoca le elezioni hanno, nella maggior parte dei paesi, una parte più o meno preponderante nella scelta della classe governante, ma non è questo un fatto nuovo nella storia. A Roma, verso la fine della repubblica, erano ben le elezioni che attribuivano il potere, ma le scelte che venivano così effettuate eran tanto deplorevoli, l’oppressione così grande, che ai più il dispotismo militare apparve un male minore e che, in un certo senso, Cesare e Augusto furono effettivamente dei benefattori della classe dominata. Non intendiamo già decidere con ciò quale sia la forma di governo che debba essere preferita, chè quella stessa forma di governo, che, in un dato istante, risulta inferiore ad un’altra, può contenere in sé dei germi di riforma, che verranno a renderla superiore in avvenire; quanto vogliamo affermare è che la forma non deve aver la prevalenza sulla sostanza e che, mutando i nomi con cui si decora la spogliazione, non si muta per nulla la quantità di ricchezza ch’essa distrugge.
Qualsiasi uomo può avvertire i mali della società in cui vive, ma solo ricerche scientifiche, spesso estremamente difficili, possono rivelarcene le vere cause. Gli uomini che le ignorano se ne foggiano spesso delle immaginarie. Sono soprattutto portati, in modo quasi invincibile, a semplificare enormemente il problema per evitare la fatica di uno studio sintetico. E’ ad un uomo, ad una legge, ad una istituzione ch’essi attribuiranno esclusivamente tutti i mali che sarà loro dato di osservare nella società. Sistemi tanto esclusivi quanto erronei attraggono di volta in volta il favore del pubblico. Non è remoto il tempo in cui il regime costituzionale era considerato come una panacea universale; ai nostri giorni parecchi autori ne han fatto il capro espiatorio di tutti i peccati degli uomini politici. All’inizio di questo secolo si diceva che l’istruzione elementare era il solo mezzo di rendere morale il popolo; vi è ora chi pretende che tale istruzione abbia fatto aumentare il numero dei delinquenti. Discussioni di tal genere sono necessariamente infeconde. Fino a che ci si ostinerà a cercare una causa unica per spiegare fenomeni estremamente complessi e svariati, è certo che si seguirà una via sbagliata. Il progresso scientifico è indissolubilmente legato a una concezione sintetica dei fenomeni sociali e della loro mutua dipendenza.
Poiché le classi ricche hanno molto spesso spogliato le classi povere si è voluto concluderne che il possesso dei capitali mobiliari e dei capitali fondiari costituisce la causa della spogliazione e che solo il collettivismo potrebbe recar rimedio ai mali della società.
In simili ragionamenti vi è un errore radicale, che già abbiamo avuto spesso occasione di notare. Sta nell’attribuire al capitale o alla ricchezza (il risparmio) degli effetti, a cui tali cose sono estranee. Non è già il semplice possesso del risparmio che pone certi uomini in grado di spogliarne altri; è l’uso ch’essi fanno di tale risparmio, valendosene, ad esempio, per rendersi amici i poteri pubblici, in luogo di trasformarlo in capitale nel senso economico dell’espressione. Ben lungi dal discorrere dell’oppressione del capitale, si deve quindi riconoscere che è precisamente quando non si trasforma in capitale che il risparmio può essere usato in modo nocivo per la società.
La ricchezza, al pari del fine a cui mira la spogliazione, è certo un mezzo che consente di esercitare la spogliazione stessa. Ma ciò non potrebbe bastare a condannare l’appropriazione dei beni economici, chè, altrimenti, dal fatto che il ferro serve agli assassini ed ai ladri, si dovrebbe concludere che questo metallo è nocivo alla razza umana e perché le navi servono ai pirati si dovrebbe rinunciare alla navigazione. Del resto, la potenza degli spogliatori non è basata soltanto sulla ricchezza (risparmio); essi si valgono di ben altri mezzi e fanno abilmente ricorso alle cose più rispettabili e più utili, di per sé, all’umanità. Poiché il mantenimento dell’ordine e della sicurezza costituisce il bisogno più urgente delle società, gli spogliatori se ne sono valsi, e se ne valgono, correntemente di pretesto per assicurare il successo delle loro operazioni. Si è pure tentato di porre la spogliazione sotto la sanzione della religione e della morale. Agli occhi della classe dominante, le azioni più abominevoli sono quelle che possono scuotere il suo potere ed essa perviene talvolta a far condividere tale idea dagli stessi sudditi suoi dominati. Dopo la morale, la cosa più indispensabile agli uomini è la giustizia; la classe dominante ha pure sempre tentato di farla servire ai suoi fini. La sola idea di magistrati assolutamente indipendenti le ripugna: istintivamente avverte che li deve asservire per porre su di una solida base il potere che detiene. E’ questo, in fondo il vero motivo del movimento che si manifesta ora contro la giuria. Non già che questa istituzione non abbia pure dei sinceri avversari, che la giudicano unicamente dal punto di vista oggettivo, ma costoro non riflettono a sufficienza che essa costituisce ancora la sola istituzione che, nonostante i suoi difetti, dia agli accusati, che non sono in buoni rapporti con la classe dominante, qualche probabilità di cavarsela. E’ questo, precisamente, il motivo dell’avversione che gli uomini politici hanno per la giuria: il motivo, che li induce ad avversarla, non differisce per nulla da quello che induceva i cavalieri romani ad impadronirsi del potere giudiziario. Persone onestissime si lasciano convincere dagli ingegnosi pretesti, che in questi casi non mancano mai e, tratti in inganno dal falso principio che il fine giustifica i mezzi, credono di servire la causa dell’ordine e della giustizia, mentre a tale causa apportano i colpi più rudi.
L’abuso, che si fa di cose di per sé perfettamente rispettabili ed eminentemente utili, genera dottrine erronee, che, al fine di evitare l’abuso, vogliono eliminare l’uso. Il comunismo, il collettivismo, il protezionismo, il socialismo di Stato o della cattedra, il socialismo borghese (nei limiti in cui è in buona fede), le teorie neo-aristocratiche di Nietzsche, l’antisemitismo, il nichilismo, l’anarchia sono propaggini di un medesimo seme: procedono direttamente da un’osservazione incompleta delle leggi della scienza sociale e spesso anche dalla passione che prende il posto della ragione.
In tutti i tempi gli uomini hanno attribuito i loro mali, purtroppo più che reali, a cause immaginarie. Nell’antica Roma è spesso risuonato il grido : -i cristiani alle belve- Nelle città del medio evo si è spesso sentito gridare –morte ai lombardi- Ora si vorrebbe ripetere –abbasso gli ebrei- Si tratta di rivolte incoscienti, che non hanno maggior ragione d’essere dell’atto del bambino che colpisce l’oggetto inanimato contro cui è andato a sbattere. Ad un grado intellettualmente un po’ più elevato, questi sentimenti di disagio e di odio nei confronti di certi abusi, si manifestano sotto forma di sistemi e di teorie. I proprietari di beni fondiari, impadroniti che si furono dello Stato, hanno fatto pesare sui loro connazionali un giogo gravoso. Si deve abolire la proprietà fondiaria e rendere comuni le terre. Certi proprietari di risparmio, in luogo di trasformarlo in capitale, se ne sono valsi per opprimere il paese. Si deve abolire la proprietà del risparmio. Degli imprenditori, in luogo di ricercare, secondo quella che è la funzione loro propria, i metodi migliori di produzione, si son fatti accordare dai poteri pubblici dei privilegi. Si debbono abolire gli imprenditori e alla sola collettività va consentito il possesso dei mezzi di produzione, dei capitali fondiari cioè e dei capitali mobiliari. I socialisti si fermano a questo punto, ma, come fa loro assai bene osservare Pietro Krapotkin, non sono logici; gli anarchici, che non si vogliono fermare a mezza strada, continuano imperturbabilmente a dedurre le conseguenze che discendono dalle premesse di cui i collettivisti si sono valsi. –Dal giorno- essi dicono –in cui si colpirà la proprietà privata in una o l’altra delle sue forme, fondiaria o industriale, si sarà costretti a colpirla pure in tutte le sue altre forme-. Poiché l’organizzazione della giustizia è servita a coprire dei misfatti, dobbiamo abolirla del tutto. Famiglia, governo, morale, tutto dev’essere eliminato per gli interessi motivi. A loro volta, però, gli anarchici sono ben costretti, essi pure, ad arrestarsi ad un certo punto, chè, se si volesse spingere questa singolare teoria fino alle sue ultime conseguenze, bisognerebbe lasciarsi morir di fame, poiché, se se ne abusa, gli stessi alimenti possono generare ogni specie di malanni.
Spesso una teoria esagerata in un senso ne fa sorgere un’altra, esagerata in senso opposto. Certi socialisti predicando l’uguaglianza assoluta, fisica e intellettuale, degli uomini, giungono al punto di voler irretire in lavori manuali senza importanza, e che non presentano alcuna difficoltà, le facoltà eccezionalmente rare e preziose dei maggiori scienziati. I neo-aristocratici, senza star molto a lambiccarsi il cervello, hanno enunciato semplicemente una dottrina esattamente contraria a quella dei socialisti. A loro dire, l’umanità intera non esiste che per produrre alcuni uomini superiori; non è che un letamaio sul quale crescono alcuni fiori.
Ciascuna di tali sette ha, naturalmente, un qualche sistema economico da propugnare. Sistema, che non ha con la realtà altri rapporti fuor di quelli che si riscontrano nei sistemi cosmogonici degli antichi.
A quest’analisi assolutamente incompleta la scienza sostituisce uno studio ampio e comprensivo, che non si limita allo studio qualitativo dei fatti, ma assurge allo studio quantitativo. A delle astrazioni senza fondamento essa sostituisce delle realtà ed elimina vaghe aspirazioni senza consistenza sostituendo loro lo studio rigoroso dei rapporti necessari alle cose.
Al di sopra, ben al di sopra, dei pregiudizi e delle passioni dell’uomo planano le leggi della natura. Eterne, immutabili, sono l’espressione della potenza creatrice: rappresentano quel che è, quel che deve essere, quel che non potrebbe essere altrimenti. L’uomo può pervenire a conoscerle; non a mutarle. Dagli infinitamente grandi agli infinitamente piccoli, tutto vi è soggetto. I soli e i pianeti seguono le leggi scoperte dal genio di un Newton e di un Laplace, precisamente come gli atomi seguono, nelle loro combinazioni, le leggi della chimica e gli esseri viventi le leggi della biologia. E’ solo l’imperfezione dello spirito umano che moltiplica le divisioni delle scienze, che separa l’astronomia dalla fisica o dalla chimica, le scienze naturali dalle scienze sociali. Nella sua essenza, la scienza è una; non è altro che la verità.”
Ma a saperlo ben leggere ci si accorge che Vilfredo Pareto nato e vissuto a cavallo dell'ottocento e novecento mostra scorci di pensiero liberale interessanti e degni di rivalutazione postuma.
Con piacere riporto qui alcune pagine Paretiane che erano sfuggite alle Letture Liberali da noi affrontate tra il 2008 e il 2009 e che forse valeva la pena non avessimo tralasciato (Riccardo Rinaldi).
“Le diverse classi economiche hanno degli interessi diversi. Ciò risulta dalla natura stessa delle cose. E’ ben evidente che un semplice operaio non ha gli stessi interessi economici di un grande proprietario terriero o del possessore d’un grande patrimonio mobiliare. In fatto di imposte ogni classe cerca di riversarne quanto più possibile il peso sulle altre. In fatto di spese pubbliche ogni classe cerca che sieno effettuate a proprio favore.
I socialisti hanno dunque interamente ragione nell’attribuire una grande importanza alla lotta delle classi e di affermare che è questo il gran fatto che domina la storia. Da tal punto di vista le opere di K. Marx e del Loria sono degne della più grande attenzione.
La lotta delle classi assume due forme note in tutti i tempi. L’una non è altro che la concorrenza economica. Abbiamo visto che quando è libera, questa concorrenza produce il massimo di ofelimità. Ogni classe, come ogni individuo, pur non avendo di mira che il proprio vantaggio, viene indirettamente ad essere utile alle altre. Ancor più. Poiché non distrugge, ma produce ricchezza, questa concorrenza contribuisce indirettamente a fare aumentare il livello del reddito minimo e a diminuire la disuguaglianza dei redditi.
L’altra forma della lotta delle classi è quella, per cui ogni classe si sforza d’impossessarsi del governo per farne una macchina con cui spogliare le altre. La lotta che intraprendono certi individui per appropriarsi la ricchezza prodotta da altri è il gran fatto che domina tutta la storia dell’umanità. Si cela e si asconde con i pretesti più vari, che hanno spesso tratto in inganno gli storici. Si può perfino dire che è soltanto nella nostra epoca che la verità è affiorata.
La classe dominante non si limita semplicemente a recare un danno diretto alle classi ch’essa spoglia; reca danno pure a tutta quanta la nazione: poiché la spogliazione è di solito accompagnata da una distribuzione di ricchezza, spesso assai considerevole, il reddito minimo deve abbassarsi e la disuguaglianza dei redditi deve aumentare.
Dal punto di vista, poco importa che la classe dominante sia una oligarchia o una plutocrazia o una democrazia. Si può dire soltanto che, sebbene vi sieno delle eccezioni, quanto più questa classe è numerosa, tanto più intensi sono i mali che risultano dalla sua dominazione, perché una classe numerosa consuma una quantità di ricchezza maggiore di quella che consuma una classe più circoscritta. E’ questa probabilmente la causa che fa sì che il regime demagogico abbia sempre avuto una durata ben minore dei regimi tirannici ed oligarchici. Sarà questo probabilmente pure il grande ostacolo che si opporrà all’instaurazione del socialismo del popolo. Il socialismo borghese, che si esplica per mezzo della protezione doganale, dei premi di esportazione e della falsificazione della moneta, ecc. ha, a proprio favore, la circostanza che ha un minor numero di aderenti da soddisfare. Ha dunque modo di arricchirli senza distruggere interamente la ricchezza del paese.
Parecchi autori confondono due questioni assolutamente diverse: quella della esistenza d’una classe dominante e quella del modo con cui se ne reclutano i membri. A questi autori pare che, quando la classe dominata ha il diritto di scegliere secondo un certo modo di elezione i suoi padroni, non ha più nulla da desiderare e deve reputarsi perfettamente felice e fortunata. Non passa loro in mente che sarebbe forse più utile evitare qualsiasi spogliazione anziché limitarsi a determinare a profitto di chi la spogliazione dovrà essere esercitata.
E’ certo che, quando i membri della classe dominante sono reclutati per eredità o per cooptazione, il giogo ch’essa esercita è più odioso di quanto accada quando i membri sono reclutati per elezione, ma non ne segue affatto che tale giogo risulti anche più grave. Non è dimostrato per nulla che un governo oligarchico avrebbe potuto essere più disonesto di quanto lo fu la municipalità di New York eletta col suffragio universale. Il popolo della Toscana era più felice e meno spogliato sotto il governo assoluto di Pietro Leopoldo di quanto lo sia ora sotto l’attuale governo costituzionale. Nella nostra epoca le elezioni hanno, nella maggior parte dei paesi, una parte più o meno preponderante nella scelta della classe governante, ma non è questo un fatto nuovo nella storia. A Roma, verso la fine della repubblica, erano ben le elezioni che attribuivano il potere, ma le scelte che venivano così effettuate eran tanto deplorevoli, l’oppressione così grande, che ai più il dispotismo militare apparve un male minore e che, in un certo senso, Cesare e Augusto furono effettivamente dei benefattori della classe dominata. Non intendiamo già decidere con ciò quale sia la forma di governo che debba essere preferita, chè quella stessa forma di governo, che, in un dato istante, risulta inferiore ad un’altra, può contenere in sé dei germi di riforma, che verranno a renderla superiore in avvenire; quanto vogliamo affermare è che la forma non deve aver la prevalenza sulla sostanza e che, mutando i nomi con cui si decora la spogliazione, non si muta per nulla la quantità di ricchezza ch’essa distrugge.
Qualsiasi uomo può avvertire i mali della società in cui vive, ma solo ricerche scientifiche, spesso estremamente difficili, possono rivelarcene le vere cause. Gli uomini che le ignorano se ne foggiano spesso delle immaginarie. Sono soprattutto portati, in modo quasi invincibile, a semplificare enormemente il problema per evitare la fatica di uno studio sintetico. E’ ad un uomo, ad una legge, ad una istituzione ch’essi attribuiranno esclusivamente tutti i mali che sarà loro dato di osservare nella società. Sistemi tanto esclusivi quanto erronei attraggono di volta in volta il favore del pubblico. Non è remoto il tempo in cui il regime costituzionale era considerato come una panacea universale; ai nostri giorni parecchi autori ne han fatto il capro espiatorio di tutti i peccati degli uomini politici. All’inizio di questo secolo si diceva che l’istruzione elementare era il solo mezzo di rendere morale il popolo; vi è ora chi pretende che tale istruzione abbia fatto aumentare il numero dei delinquenti. Discussioni di tal genere sono necessariamente infeconde. Fino a che ci si ostinerà a cercare una causa unica per spiegare fenomeni estremamente complessi e svariati, è certo che si seguirà una via sbagliata. Il progresso scientifico è indissolubilmente legato a una concezione sintetica dei fenomeni sociali e della loro mutua dipendenza.
Poiché le classi ricche hanno molto spesso spogliato le classi povere si è voluto concluderne che il possesso dei capitali mobiliari e dei capitali fondiari costituisce la causa della spogliazione e che solo il collettivismo potrebbe recar rimedio ai mali della società.
In simili ragionamenti vi è un errore radicale, che già abbiamo avuto spesso occasione di notare. Sta nell’attribuire al capitale o alla ricchezza (il risparmio) degli effetti, a cui tali cose sono estranee. Non è già il semplice possesso del risparmio che pone certi uomini in grado di spogliarne altri; è l’uso ch’essi fanno di tale risparmio, valendosene, ad esempio, per rendersi amici i poteri pubblici, in luogo di trasformarlo in capitale nel senso economico dell’espressione. Ben lungi dal discorrere dell’oppressione del capitale, si deve quindi riconoscere che è precisamente quando non si trasforma in capitale che il risparmio può essere usato in modo nocivo per la società.
La ricchezza, al pari del fine a cui mira la spogliazione, è certo un mezzo che consente di esercitare la spogliazione stessa. Ma ciò non potrebbe bastare a condannare l’appropriazione dei beni economici, chè, altrimenti, dal fatto che il ferro serve agli assassini ed ai ladri, si dovrebbe concludere che questo metallo è nocivo alla razza umana e perché le navi servono ai pirati si dovrebbe rinunciare alla navigazione. Del resto, la potenza degli spogliatori non è basata soltanto sulla ricchezza (risparmio); essi si valgono di ben altri mezzi e fanno abilmente ricorso alle cose più rispettabili e più utili, di per sé, all’umanità. Poiché il mantenimento dell’ordine e della sicurezza costituisce il bisogno più urgente delle società, gli spogliatori se ne sono valsi, e se ne valgono, correntemente di pretesto per assicurare il successo delle loro operazioni. Si è pure tentato di porre la spogliazione sotto la sanzione della religione e della morale. Agli occhi della classe dominante, le azioni più abominevoli sono quelle che possono scuotere il suo potere ed essa perviene talvolta a far condividere tale idea dagli stessi sudditi suoi dominati. Dopo la morale, la cosa più indispensabile agli uomini è la giustizia; la classe dominante ha pure sempre tentato di farla servire ai suoi fini. La sola idea di magistrati assolutamente indipendenti le ripugna: istintivamente avverte che li deve asservire per porre su di una solida base il potere che detiene. E’ questo, in fondo il vero motivo del movimento che si manifesta ora contro la giuria. Non già che questa istituzione non abbia pure dei sinceri avversari, che la giudicano unicamente dal punto di vista oggettivo, ma costoro non riflettono a sufficienza che essa costituisce ancora la sola istituzione che, nonostante i suoi difetti, dia agli accusati, che non sono in buoni rapporti con la classe dominante, qualche probabilità di cavarsela. E’ questo, precisamente, il motivo dell’avversione che gli uomini politici hanno per la giuria: il motivo, che li induce ad avversarla, non differisce per nulla da quello che induceva i cavalieri romani ad impadronirsi del potere giudiziario. Persone onestissime si lasciano convincere dagli ingegnosi pretesti, che in questi casi non mancano mai e, tratti in inganno dal falso principio che il fine giustifica i mezzi, credono di servire la causa dell’ordine e della giustizia, mentre a tale causa apportano i colpi più rudi.
L’abuso, che si fa di cose di per sé perfettamente rispettabili ed eminentemente utili, genera dottrine erronee, che, al fine di evitare l’abuso, vogliono eliminare l’uso. Il comunismo, il collettivismo, il protezionismo, il socialismo di Stato o della cattedra, il socialismo borghese (nei limiti in cui è in buona fede), le teorie neo-aristocratiche di Nietzsche, l’antisemitismo, il nichilismo, l’anarchia sono propaggini di un medesimo seme: procedono direttamente da un’osservazione incompleta delle leggi della scienza sociale e spesso anche dalla passione che prende il posto della ragione.
In tutti i tempi gli uomini hanno attribuito i loro mali, purtroppo più che reali, a cause immaginarie. Nell’antica Roma è spesso risuonato il grido : -i cristiani alle belve- Nelle città del medio evo si è spesso sentito gridare –morte ai lombardi- Ora si vorrebbe ripetere –abbasso gli ebrei- Si tratta di rivolte incoscienti, che non hanno maggior ragione d’essere dell’atto del bambino che colpisce l’oggetto inanimato contro cui è andato a sbattere. Ad un grado intellettualmente un po’ più elevato, questi sentimenti di disagio e di odio nei confronti di certi abusi, si manifestano sotto forma di sistemi e di teorie. I proprietari di beni fondiari, impadroniti che si furono dello Stato, hanno fatto pesare sui loro connazionali un giogo gravoso. Si deve abolire la proprietà fondiaria e rendere comuni le terre. Certi proprietari di risparmio, in luogo di trasformarlo in capitale, se ne sono valsi per opprimere il paese. Si deve abolire la proprietà del risparmio. Degli imprenditori, in luogo di ricercare, secondo quella che è la funzione loro propria, i metodi migliori di produzione, si son fatti accordare dai poteri pubblici dei privilegi. Si debbono abolire gli imprenditori e alla sola collettività va consentito il possesso dei mezzi di produzione, dei capitali fondiari cioè e dei capitali mobiliari. I socialisti si fermano a questo punto, ma, come fa loro assai bene osservare Pietro Krapotkin, non sono logici; gli anarchici, che non si vogliono fermare a mezza strada, continuano imperturbabilmente a dedurre le conseguenze che discendono dalle premesse di cui i collettivisti si sono valsi. –Dal giorno- essi dicono –in cui si colpirà la proprietà privata in una o l’altra delle sue forme, fondiaria o industriale, si sarà costretti a colpirla pure in tutte le sue altre forme-. Poiché l’organizzazione della giustizia è servita a coprire dei misfatti, dobbiamo abolirla del tutto. Famiglia, governo, morale, tutto dev’essere eliminato per gli interessi motivi. A loro volta, però, gli anarchici sono ben costretti, essi pure, ad arrestarsi ad un certo punto, chè, se si volesse spingere questa singolare teoria fino alle sue ultime conseguenze, bisognerebbe lasciarsi morir di fame, poiché, se se ne abusa, gli stessi alimenti possono generare ogni specie di malanni.
Spesso una teoria esagerata in un senso ne fa sorgere un’altra, esagerata in senso opposto. Certi socialisti predicando l’uguaglianza assoluta, fisica e intellettuale, degli uomini, giungono al punto di voler irretire in lavori manuali senza importanza, e che non presentano alcuna difficoltà, le facoltà eccezionalmente rare e preziose dei maggiori scienziati. I neo-aristocratici, senza star molto a lambiccarsi il cervello, hanno enunciato semplicemente una dottrina esattamente contraria a quella dei socialisti. A loro dire, l’umanità intera non esiste che per produrre alcuni uomini superiori; non è che un letamaio sul quale crescono alcuni fiori.
Ciascuna di tali sette ha, naturalmente, un qualche sistema economico da propugnare. Sistema, che non ha con la realtà altri rapporti fuor di quelli che si riscontrano nei sistemi cosmogonici degli antichi.
A quest’analisi assolutamente incompleta la scienza sostituisce uno studio ampio e comprensivo, che non si limita allo studio qualitativo dei fatti, ma assurge allo studio quantitativo. A delle astrazioni senza fondamento essa sostituisce delle realtà ed elimina vaghe aspirazioni senza consistenza sostituendo loro lo studio rigoroso dei rapporti necessari alle cose.
Al di sopra, ben al di sopra, dei pregiudizi e delle passioni dell’uomo planano le leggi della natura. Eterne, immutabili, sono l’espressione della potenza creatrice: rappresentano quel che è, quel che deve essere, quel che non potrebbe essere altrimenti. L’uomo può pervenire a conoscerle; non a mutarle. Dagli infinitamente grandi agli infinitamente piccoli, tutto vi è soggetto. I soli e i pianeti seguono le leggi scoperte dal genio di un Newton e di un Laplace, precisamente come gli atomi seguono, nelle loro combinazioni, le leggi della chimica e gli esseri viventi le leggi della biologia. E’ solo l’imperfezione dello spirito umano che moltiplica le divisioni delle scienze, che separa l’astronomia dalla fisica o dalla chimica, le scienze naturali dalle scienze sociali. Nella sua essenza, la scienza è una; non è altro che la verità.”
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