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sabato 14 agosto 2010

CROCE, gli AUSTRIACI ed il LIBERALISMO

In un interessante articolo apparso, col medesimo titolo in “MondOperaio”, novembre-dicembre 2003, n. 6, pp. 114-25 il professor Raimondo Cubeddu, analizza la posizione di Bendetto Croce rispetto a quella della Scuola Austriaca. Da questa analisi deriva una critica molto forte delle posizioni di Croce e una conseguenza, la morte del liberalismo in Italia: Scrive Cubeddu: "Ciò detto, se per Croce l'oggetto della scienza economica sono le azioni volontarie, per Menger l'oggetto delle scienze sociali teoriche (comprensive della 'scienza economica esatta') sono le conseguenze inintenzionali che seguono alle azioni umane intenzionali. La tesi 'austriaca' può così può essere d'aiuto per capire come mai, partendo dall'intenzione di provocare la morte del marxismo teorico, in Italia si sia finito, tagliandone le radici, per provocare invece quella del liberalismo."

Quindi le conclusioni del Prof. Cubeddu: ....Così esposta, ovvero con le parole di Menger, mi chiedo se veramente la critica di Croce e la sua interpretazione della nascita della scienza economica possano valere anche per gli 'Austriaci' dato che, nella loro concezione dell'attività economica e delle istituzioni a cui essa dà vita, non vi sono elementi che possono configurarla come una teoria utilitaristica ed edonistica se non nel significato che Croce dava a quei concetti.

Certamente Croce era un filosofo originale, ma resta il dubbio che quel che può valere per la teoria dell'azione e del valore della scuola economica classica, ed anche di Gossen e di Jevons, non possa essere automaticamente esteso alla Scuola Austriaca e alla sua teoria dell'azione umana, dei valori soggettivi e delle istituzioni sociali. Infatti, la 'teoria dei valori soggettivi', non è altro se non una teoria della conoscenza e della scelta in regime di scarsità, che si fonda sulla radicale contestazione della teoria economica classica e del suo
utilitaristico, onnisciente, ed in definitiva famigerato homo oeconomicus che Hayek definisce un prodotto della teoria economica classica estraneo a quella 'austriaca': una «nostra [degli economisti] vergogna di famiglia che abbiamo esorcizzato con la preghiera e il digiuno».
Sempre nella prospettiva 'austriaca', viene perciò da chiedersi se diritto, etica e stato, che sono il risultato 'irriflesso' degli scambi e dei 'naturali' tentativi individuali di assicurarsi una sopravvivenza, possano mai disporre della conoscenza necessaria per correggere il mercato. Ovvero, in termini neo-istituzionalistici, se possa mai funzionare, e con quali 'costi di transazione', un sistema edonistico ed utilitaristico nella sfera del
soddisfacimento dei bisogni, ed 'etico' (ma esattamente cosa vuol dire?) nella sfera dei comportamenti politici. Quali i costi della sovrapposizione, che in questo caso appare forzata, dei due sistemi?

Non mi dilungo oltre, ma spero che possa essere chiaro perché, uno che ha studiato due soluzioni 'integrate' (teoria dell'azione in condizioni di scarsità, soddisfacimento dei bisogni, teoria delle istituzioni e teoria politica) non possa più ritenere soddisfacente e feconda la soluzione crociana la quale presuppone che nel secondo momento (eticopolitico) gli stessi individui abbiano a disposizione una conoscenza maggiore di quella di cui dispongono nel primo (soddisfacimento dei bisogni) quando temporalmente non è possibile distinguere i due momenti.

La mia convinzione, in definitiva, è
1) che la recezione della confusione che Pantaleoni fa in quegli anni tra Jevons e Menger si sia trasmessa a Croce il quale ne deduce il carattere edonistico, utilitaristico, atomistico e quantitativo di tutta la scienza economica;
2) che non è un caso se a rivitalizzare il liberalismo sia stata proprio quella 'Scuola Austriaca' che era già uscita dalle secche nella quale lo avevano condotto da una parte la scuola classica con la sua teoria dell'azione e del valore, e dall'altra parte Croce col suo tentativo di superare tale impasse distinguendo tra liberismo e liberalismo;
3) che oggi il maggior difetto che può essere individuato nel liberalismo di Croce è:
a) di non aver una teoria dell'azione umana e delle istituzioni;
b) di non avere una teoria dei diritti individuali;
c) di fondarsi su una discutibile e discussa interpretazione della nascita della scienza economica e della tradizione individualistica e liberale (si pensi alla questione del diritto naturale), da cui non poteva nascere che una parimenti discutibile teoria del liberalismo;
d) di non contenere, come sostiene Sebastiano Maffettone, una "teoria normativa della politica".



sabato 17 luglio 2010

Intervista al nostro membro d'onore Piero Ostellino del 15.07.10


INT.

Piero Ostellino

giovedì 15 luglio 2010

Nella serata di ieri il sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino, coinvolto nell’inchiesta sull’eolico, si è dimesso. È mio interesse tutelare il governo, ha detto. Diventa così ancora più aggrovigliato il momento di crisi che attraversano il governo e il partito di maggioranza: entrambi minati dalle indagini e dalle correnti interne, mentre appare in difficoltà la leadership di Berlusconi, che non riesce ad avere ragione di uno scenario sempre più frammentato e quanto mai incerto. Parla Piero Ostellino, editorialista del Corriere.



Prima Scajola, poi Brancher, ieri Cosentino. Le indagini puntano a isolare sempre di più Berlusconi?



Non credo. Sono casi giudiziari specifici che attengono a vicende complesse ma individuali. È evidente che siamo entrati in una fase segnata apparentemente dal declino di Berlusconi e dalla corsa alla successione. Anche se Berlusconi, a mio parere, non ha nulla da temere dai sommovimenti interni al suo partito. In realtà lo scacco del premier è più profondo e sta nell’aver ceduto alle logiche del paese corporativo.



In ogni caso il premier appare in difficoltà e non sembra capace di costruire una sintesi politica. questa crisi è causa o effetto dell’appannamento di leadership di Berlusconi?



Difficile dirlo. In realtà Berlusconi non è mai stato in grado di pervenire ad una sintesi, perché non ne ha la cultura politica. È uno straordinario uomo d’affari che ha governato e governa il paese con la sua leadership carismatica. Sul resto la mia posizione è nota: risultati parziali ci sono stati, ma Berlusconi non ha saputo realizzare la rivoluzione liberale, basata innanzitutto sulla riduzione dell’eccessiva pressione fiscale, che aveva promesso. A questo sostanziale fallimento ha tentato di sopperire con una politica dell’annuncio.



Lei ha scritto di recente che il paese è spaccato tra un’Italia progressista che invoca lo stato di polizia (“intercettateci tutti”) e una moderata che confida nel demiurgo. Se la rivoluzione liberale di Berlusconi è archiviata, cosa c’è al suo posto?



Il paese di sempre: lo stesso paese che nel 1943, all’atto della sfiducia di Mussolini, era in gran parte fascista e che il giorno dopo si ritrovò in gran parte comunista. Un paese che ha cambiato la casacca e il colore della camicia, ma che sotto è rimasto in gran parte quello di prima. Poco importa che si dichiari laico o democratico antifascista: il nostro resta tutto sommato un paese fascista.



E quale sarebbe la caratteristica del nostro fascismo?

Il fatto che gli italiani non credono nelle libertà e nelle conseguenti responsabilità. Noi non siamo cittadini, la nostra massima ambizione è quella di essere governati come sudditi. Basti pensare all’enormità di divieti e alla violazione di diritti individuali che informano la nostra vita pubblica, dall’inversione dell’onere della prova a carico dell’accusato in materia fiscale all’esecutorietà della sanzione amministrativa, e tutto senza che noi battiamo ciglio. La crisi del berlusconismo è una delle tanti disillusioni di questo paese: il demiurgo doveva risolvere i problemi ma non l’ha fatto, e per una ragione molto semplice e cioè che il paese, in fondo, nemmeno voleva che fossero risolti. Berlusconi stesso si è prontamente adeguato al paese: lo rispecchia, ed è questa la ragione del suo successo.



Esiste però una stampa ferocemente antiberlusconiana.



Ma questa stampa alimenta un’antipolitica paradossalmente funzionale alla perpetuazione di questo fascismo. Si potrebbe ritenere che tenga vivo l’«antifascismo», ma non si ricorderà mai abbastanza che l’antifascismo ideologico è determinato interamente dalla sua opposizione al fascismo.



E la sinistra?



L’unica cosa che la tiene in piedi è l’antiberlusconismo: il gridare al tiranno e all’attentato contro la libertà di informazione. La sinistra non ha identità, non ha idee, non sa nemmeno lei stessa cosa vorrebbe. In realtà essa non c’è più: è scomparsa. I giornali non inducono a riflettere su questo stato di cose. Sono pro o contro Berlusconi, ma chi parla delle decisioni illiberali che mortificano il cittadino? Chi ha parlato a fondo delle ultime leggi approvate dal parlamento in materia fiscale?



A proposito del caos attuale lei ha scritto di una «sindrome di Weimar» e dei suoi potenziali rischi. Quali sono?



Di fronte ad una politica che non riesce più ad avere un ruolo di direzione, di fronte al fatto che sono le corporazioni che governano il paese, e che la stessa funzione pubblica è diventata una corporazione, come si vede dal conflitto tra il potere centrale e le regioni, sale nell’opinione pubblica il desiderio di una tecnocrazia che decida sulla base di una visione scientifica, e perciò astratta, della società. Il primo atto di una tecnocrazia è fare a meno della sovranità popolare.



Non potrebbero essere i tecnocrati a risolvere finalmente i problemi del paese?

No, perché la tecnocrazia attuerebbe l’ennesimo tentativo di applicare alla realtà sociale una formula razionalistica, mentre la risoluzione dei problemi può scaturire solo dalla libertà. Se non si ha fede nella capacità degli uomini di decidere individualmente e soggettivamente, ciascuno secondo i propri interessi, le proprie preferenze, la propria concretezza, il proprio stile di vita e la propria esigenza di felicità, resta solo il razionalismo e quindi l’oppressione. Ci devono essere meno regole possibili: solo quelle che ci impediscono, nel perseguire il nostro ideale di felicità, di arrecare un danno agli altri.



Ha ragione o no Berlusconi nello stigmatizzare un’offensiva «giacobina e giustizialista»?



Che ci sia una parte minoritaria, sottolineo minoritaria, della magistratura che persegue un disegno egemonico animata da una visione provvidenzialistica della giustizia, è un fatto acquisito per chi è libero da preconcetti. Oggi certi magistrati sono alla ricerca del peccato, non del reato. Cosa vuol dire che l’accusato è «reticente nell’accettare i fondamenti dell’accusa»? È un suo diritto rifiutarli, perché mai dovrebbe accettarli? Il magistrato deve condannare i reati sulla base del codice, non sulla base della sua concezione di società. In questo Berlusconi ha ragione, c’è una magistratura giacobina. Ma il dramma è che questo riguarda molto più il cittadino comune che non Berlusconi e i suoi problemi con la giustizia.



Prima lei ha detto che Berlusconi ha ceduto alle logiche corporative. Cosa intende?



In Italia il potere politico, per secoli comunale, infine diventato statuale con l’unità d’Italia, ha sempre svolto un ruolo di mediazione tra le corporazioni. Questa mediazione è storicamente consistita nel distribuire le risorse esistenti ai vari partecipanti, secondo criteri soggettivi. La crisi economica però ha privato il potere di risorse da ridistribuire ed esso è diventato una corporazione in guerra con le altre.



Questo che c’entra con la leadership di Berlusconi?

C’entra per il fatto che la crisi attuale non riguarda solo la politica, il caos dentro il Pdl per intenderci: essa riflette quello che sta accadendo nella società italiana. La sua natura corporativa è esplosa e si ripercuote a livello politico, frammentandolo. Il potere politico è anch’esso alla ricerca di risorse e lo scontro in atto con le regioni può essere letto così: corporazioni locali che si ribellano alla corporazione centrale. Con l’effetto di acuire la conflittualità sociale, ampliandola. Attualmente Berlusconi è debole perché è prigioniero delle corporazioni organizzate, oltre che di se stesso.



In questa guerra corporativa qual è il ruolo della Lega?



La Lega è l’unica forza ad aver capito realmente che il corporativismo è la vera essenza della realtà italiana, e la sua vocazione storica è quella di tradurre il corporativismo localistico in una domanda di «secessione democratica». Il meridionalismo separatista pretendeva che lo stato ripagasse il sud per i danni che esso aveva ricevuto dall’unificazione. Lo stesso sta ora avvenendo al nord, in senso opposto: il corporativismo giustifica l’esigenza di secessione, proprio perché la miglior tutela avviene a livello locale. Tradotto: non possiamo più sostenere una parte del paese a nostre spese.



Ma il federalismo non può sancire a livello costituzionale uno stato di cose più equilibrato?



Sarebbe la sua funzione storica, ma scattano a questo punto le tare materiali della realtà italiana: ci sono regioni del sud che non essendo in grado di amministrarsi non si assumeranno mai la responsabilità del loro autogoverno, e pretenderanno di essere sovvenzionate dal potere centrale. E il nord questo non potrà accettarlo.



Torniamo a Berlusconi. Fini può prendere il suo posto?



No, se lo tolga dalla testa. Al momento attuale non c’è nessuno che possa prendere il posto di Berlusconi, ammesso che egli non faccia grosse sciocchezze e rimanga sul filo della ragionevolezza. Berlusconi non ha successori. Tantomeno può succedergli un ex missino, per quanto ravveduto. Può accadere che un ex comunista arrivi alla presidenza del Consiglio, ma è destinato a starci poco, perché l’Italia non ha nostalgia degli eredi delle ideologie totalitarie del ’900. Ciò non toglie che abbia nostalgia per l’ordine e la disciplina, tratti caratterizzanti del fascismo. Diciamo meglio: l’Italia è fascista indipendentemente dalla nostalgia per i leader fascisti.



Per fortuna che in Italia c'è ancora qualcuno che dice qualcosa di autenticamente liberale.
Commento finale e inserimento dell'articolo da parte di Riccardo Rinaldi

giovedì 17 giugno 2010

Intervista Piero Ostellino 17 giugno 2010


SCENARIO/ Ostellino: non bastano i tagli a salvarci dagli errori di Togliatti e Dossetti

INT.

Piero Ostellino

giovedì 17 giugno 2010

«Alla base delle principali questioni che stanno interrogando il Paese in questo particolare momento storico c’è, a mio parere, un problema culturale, prima ancora che politico o economico». È questo il filo rosso, secondo Piero Ostellino, che lega la crisi economica alle affannose manovre per far tornare i conti e per condividere tagli e sacrifici, fino ad arrivare alla complicata trattativa della Fiat a Pomigliano. «Paghiamo il prezzo di una cultura di matrice cattolico-dossettiana e comunista alla base della nostra Costituzione, liquidativa delle libertà economiche, fortemente anti-individualistica e illiberale. Dietro una parvenza di solidarismo si nasconde però una profonda vocazione totalitaria tipica di quella cultura d’origine. I nostri guai, a mio parere, nascono da lì».



Il Presidente del Consiglio poco tempo fa ha definito la Costituzione “un inferno”. Non rischia di diventare il capro espiatorio dei problemi del Paese?



Non penso proprio. Dopo averla studiata a fondo sono arrivato a una conclusione: è una Costituzione programmatica, tipica delle costituzioni totalitarie del ‘900. A differenza di quelle procedurali e liberali, non si limita a fissare le regole del gioco, ma decide pesantemente come il gioco si debba svolgere.



È giunto il momento di mettergli mano o è ancora “intoccabile”?



La Costituzione non dovrebbe esserlo per definizione. Thomas Jefferson diceva che ogni generazione ha il diritto di cambiarla. Nel nostro Paese, invece, viene considerata intoccabile da tutti quelli che campano dello status quo: sindacati che non imparano dalla storia, docenti di diritto costituzionale che hanno costruito la loro fortuna su questa presunta “intoccabilità”, politici e manager con una spiccata vocazione autoritaria che credono in una società eterodiretta, senza alcuno spazio per la libertà individuale. In poche parole, quanto di peggio esista nella cultura politica di questo Paese. Chiamiamoli con il loro nome: reazionari contrari alle libertà individuali, legati all’ancien régime e quindi anacronistici.



Alcuni sindacati, a cui ha fatto riferimento, pongono un problema di incostituzionalità anche riguardo all’accordo proposto dalla Fiat a Pomigliano

Bisognerebbe capire, a questo punto, se esistono davvero i termini d’incostituzionalità, d’altra parte potremmo iniziare ad ammettere che è proprio la Costituzione a lasciare spazio a molte ambiguità. Come dicevo prima, è figlia del solidarismo cattolico dei Dossetti, dei Fanfani e dei comunisti alla Togliatti, con l’aggravante di essere stata scritta quando ancora si guardava al comunismo come al superamento del capitalismo. Non stiamo a dilungarci su come sia andata a finire, il problema è che siamo ancora fermi lì, a una Carta che da un lato riconosce alcuni principi liberali, dall’altra li condiziona alle astrazioni ideologiche tipiche di quel mondo e di quel tempo.



Tornando all’accordo, secondo Tito Boeri è inevitabile e necessario, ma rende ancora più indispensabile una seria riforma delle regole di contrattazione e di rappresentanza sindacale. Lei è d’accordo?



È un problema da risolvere, ma in un secondo momento. Prima di tutto bisogna porre i lavoratori di fronte al nodo vero: il rapporto di causa ed effetto tra costi e ricavi in un processo capitalistico. Se questo non si comprende si confondono ruoli e funzioni, doveri e diritti. Il movimento operaio e la sinistra dovrebbero iniziare a fare i conti con la propria cultura politica o almeno con l’osservazione dei dati e della realtà.



Cosa intende?



Tutti sanno che la produttività degli stabilimenti Fiat in Italia è più bassa rispetto a quella di Polonia o Brasile. Nel nostro Paese, infatti, si producono meno automobili con un numero di lavoratori maggiore. Se non si capisce il nesso elementare tra costi e ricavi non si può capire che siamo davanti a un bivio: o si alza la produttività o la Fiat sarà costretta a spostare lo stabilimento. Ecco perché la proposta dell’azienda torinese, a mio parere, è ragionevole. Purtroppo però la Fiom paga lo scotto di questo ritardo culturale e non sembra aver compreso ancora il processo di accumulazione capitalistico.



A sinistra il dibattito si è aperto, secondo Bertinotti la sinistra stessa, moderata o radicale che sia, sarebbe “morta”, lontana dalla Fiom e da Pomigliano e forse troppo impegnata con i post-it contro il ddl intercettazioni

È la constatazione di uno stato di smarrimento che la sinistra italiana vive da quando ha perso il proprio punto di riferimento culturale, la rivoluzione. Dopo aver capito che non è un obiettivo perseguibile in un paese occidentale, democratico e di mercato ha perso anche il suo riferimento storico, l’Unione sovietica, l’incarnazione del “successo” storico della rivoluzione. La crisi della socialdemocrazia non gli ha permesso poi di cambiare pelle. Il sistema era ormai malato di un welfare portato alle estreme conseguenze, di un eccesso di tassazione e di spesa pubblica.

Ad oggi, la sinistra non ha un referente culturale, è incapace di elaborare una nuova cultura politica autonoma e sembra ancora vittima del suo vizio d’origine, del suo peccato originale.



Quale?



Il fatto di essere fondata su posizioni massimaliste come la palingenesi rivoluzionaria, il cambiamento della società, l’illusione dell’uomo etico, buono e disinteressato, che nella realtà però non esiste. Il ritardo è notevole dato che nel 1651 se n’era già accorto Hobbes, che nel “Leviatano” risolveva l’homo homini lupus affidando il comando al despota, mentre dopo di lui Locke sceglieva la strada del consenso e del processo democratico.



A proposito della crisi di un modello esasperato di welfare a cui faceva riferimento prima, l’Europa oggi chiede a tutti gli stati delle pesanti manovre correttive per evitare il fallimento…



Lo stato sociale, che è la forma dello stato moderno, è entrato in crisi: da un lato spende più di quello che potrebbe, dall’altro impone una tassazione al di là di ciò che dovrebbe, riducendo così la libertà dei cittadini. È interessante però notare che ancora una volta per risolvere i problemi che abbiamo ignorato per anni siamo costretti ad aggrapparci a un vincolo esterno. Un modo di procedere che però non è esente da rischi.



A cosa si riferisce?

L’Europa ha dimostrato di funzionare se gli stati riescono a risolvere i propri problemi. Se lo stato moderno entra però in una crisi così profonda, il rischio di affossare l’Europa c’è, soprattutto se ci accorgiamo di averla costruita con i difetti dello stato moderno stesso: centralismo, burocrazia e verticismo.



A partire da queste premesse che scenari si aprono secondo lei?



Gli stati nazionali usciranno dalla crisi con gravi difficoltà, mentre l’illusione di uno stato europeo sovranazionale in grado di difenderci da un mondo dove non si fanno più guerre per conquistare territori e fare affari, ma dove la finanza scavalca bellamente i confini nazionali, si è rivelata illusoria.



Secondo lei, come sta rispondendo l’Italia alle richieste dell’Europa?



Quando si operano tagli indiscriminati, così come quando si elargiscono sussidi a pioggia non si realizza giustizia sociale, ma si penalizzano le regioni virtuose. Ecco perché condivido la protesta dei governatori. Io sarei addirittura più deciso di loro: le regioni non virtuose, quelle che, per intenderci, non sono nemmeno in grado di fornire il bilancio della sanità, devono essere commissariate. Lo stato centrale su questo deve essere inflessibile all’interno di un quadro di sussidiarietà e federalismo fiscale. Non può esserci libertà senza responsabilità.



Da ultimo, lei ha sottolineato molti aspetti di una crisi culturale di fondo. Inevitabile chiederle se secondo lei saremo in grado di uscirne e come.



Confesso di non essere molto ottimista. Per uscire da questa crisi servirebbe una “rivoluzione culturale”. Le giovani generazioni non hanno mai conosciuto il liberalismo, la democrazia liberale, il merito. Il riscatto può partire da loro e passerà sicuramente dalla scuola. Per ora ognuno sembra portare l’acqua al suo mulino sulla base di un’idea di democrazia del tutto personale o, al massimo, corporativa

Non poteva mancare questa intervista del nostro Membro d'Onore Piero Ostellino nel nostro BLOG.
Per noi del Centro Studi Liberali B. Croce ogni volta che lui rilascia una intervista è come quando la luce del faro girando a 360 gradi ci colpisce negli occhi.
Articolo riportato da Riccardo Rinaldi

venerdì 4 giugno 2010

L'ITALIA FATTA IN CASA - di Alberto Alesina e Andrea Ichino

Comunicato Stampa.


Lunedì 21 giugno 2010 alle ore 17,30 ad Ancona presso la Loggia dei Mercanti avrà luogo una tavola rotonda con Andrea Ichino, Maria Paola Merloni ed Emmanuele Pavolini sul libro: L’Italia fatta in casa. Indagine sulla vera ricchezza degli italiani, scritto da Alberto Alesina (Harvard University) e Andrea Ichino (Università di Bologna) e pubblicato da Mondadori.

L’evento è organizzato dal Centro Studi liberali Benedetto Croce di Ancona con il patrocinio del Comune di Ancona, in collaborazione con il C.I.F. – Centro Italiano Femminile e con il contributo di Auto 90.

Stando alle statistiche Il prodotto interno lordo pro capite è più basso confrontato con quello di altri paesi come USA, Norvegia e Spagna. Basta questo per rilevare che la situazione dell’Italia è peggiore? Da cosa è composta la qualità della vita made in Italy, che pure risulta comunque essere uno standard appetibile in tutto il mondo?

In Italia c’è ancora disparità tra uomini e donne per la divisione del lavoro, i salari e le pensioni, le possibilità di carriera, secondo il modello tradizionale “Uomini in ufficio e donne a casa”. Cosa vogliono davvero le italiane e gli italiani? Quanti di loro sono disposti al cambiamento per riportare la situazione in equilibrio?

Quanto le istituzioni in Italia modificano la società e quanto invece la società determina l’operato delle istituzioni? La creazione del bene pubblico è ancora ostacolata come un tempo dal modello di sviluppo familiare, basato sulla fiducia nel privato e la diffidenza ad intraprendere con gli estranei?

Gli autori del libro analizzano il ruolo della famiglia nel sistema produttivo italiano nell’ambito del mercato del lavoro, del sistema universitario, della struttura del welfare state, della governance nelle aziende considerando anche la condizione della donna, dei bambini e degli anziani, il senso civico, la fiducia nelle regole e nelle istituzioni e le differenze di sviluppo tra nord e sud.

Un’indagine puntuale e un dibattito serviranno a far luce sulla vera ricchezza degli italiani: la produzione italiana non rilevata dalle statistiche e la mancata produzione causata da modelli di sviluppo privatistici ereditati dal passato.

Ancona, giugno 2010.

IL DIRITTO COME PRETESA PER BRUNO LEONI

Giovedì scorso, durante la riunione del direttivo aperto, ho promesso a chi mi sedeva accanto che avrei messo sul blog una breve trattazione del concetto di diritto come pretesa che è forse l'aspetto più conosciuto del pensiero di Bruno Leoni.


Va detto anzitutto che egli sviluppa questo concetto lungo tutta la sua vita di studioso della materia e quindi le prime bozze del concetto sono già presenti, in forma assai primitiva, anche nei suoi primi scritti.

La materia è molto complessa perchè abbraccia tutto l'arco di scienze di cui Leoni si è occupato, ma volendo limitarsi all'essenziale va riferito che Leoni fonda il suo pensiero su due fonti primarie:

Quella sociologica che gli veniva da una ampia condivisione dei lavori di Weber e di Ehrlich e quella economica basata sulla più volte ribadita adesione alla nota Scuola Austriaca, vale a dire, per intenderci quella di Mises e di Hayek.

Leoni contrappone alla teoria normativistica, allora predominante in Italia e nel continente europeo, la cui fondazione può essere attribuita a Kelsen, il recupero del cosiddetto diritto naturale con l'aggiunta di proprie considerazioni che lo porteranno appunto a definirlo diritto come pretesa.

Egli obietta che la teoria normativistica non tiene conto che l'osservanza o meno di una norma è qualcosa che accade nella realtà, ossia è un “insieme di eventi psicologici a cui corrispondono comportamenti osservabili, e non semplicemente una proposizione o un insieme di proposizioni linguistiche”.

Questo significa che le norme diventano espressioni di usi, ed è quindi possibile verificare la loro corrispondenza, o dissonanza, rispetto a questi usi.

Può cioè accadere che esista un diritto"vivente" contrapposto al diritto "vigente" e che quindi gli schemi di previsione delle azioni umane non corrispondono a quelli previsti dalle leggi.

Ciò non toglie che egli si preoccupi di dare valore oggettivo e universale alle conclusioni alle quali approda.

Egli obietta che comportamenti effettivi degli individui sono orientati secondo determinati criteri presenti alla mente degli individui: in particolare secondo determinati schemi previsivi e secondo determinate pretese che, come tali, possono considerarsi eventi psicologici.

C'è un passo degli scritti di Leoni che meglio di tutti chiarisce il punto di vista:

“riassumendo, “sociologia comprendente” nel senso weberiano vuol dire spiegazione delle azioni umane in base ad un’interpretazione che il significato è quello dato dalla persona che le compie, quindi in base ad un accertamento degli scopi che questa persona si propone nell’agire. Questo accertamento implica la considerazione di certe aspettative che sono riconnesse a questi scopi. Se io mi propongo lo scopo di comprare una cosa, io mi attendo e quindi pretendo che ci sia chi me la vende, o meglio che chi la vende la venda a me. Quindi questi scopi sono riconnessi con aspettative. […]

Il residuo insolubile dal quale parte la sociologia comprendente è l'individuo. In altri termini il canone metodologico fondamentale della sociologia comprendente di Weber è l'individualismo inteso come procedimento mediante il quale tutti gli eventi si spiegano tentando di accertare i significati che determinati singoli individui agenti attribuiscono alle loro azioni”.

Come si vede si tratta di un concetto assai simile a quello elaborato dalla Scuola Austriaca, in particolare alla teoria dell'individualismo e alle sue implicazioni in tutte le scienze umane.

Il primo importante rilievo di Leoni, connesso alla già citata critica del normativismo, è l'individuare nel diritto un importante elemento di soggettività, riconducibile al fatto che chi rivendica un diritto pretende anzitutto il verificarsi di un comportamento altrui.

Un passo in cui egli chiarisce meglio è il seguente:

“il concetto cui sembra riducibile il termine diritto, così come viene usato nel linguaggio ordinario, è quello che potrebbe definirsi la richiesta di un comportamento altrui corrispondente ad un nostro interesse […] e considerato inoltre come probabile – o comunque più probabile di altri – nell’ambito di convivenza organizzata cui apparteniamo entrambi (noi e la persona il cui comportamento è oggetto di pretesa), nonché in ogni caso come determinabile mediante un nostro intervento (presso tale persona o presso altre) in base ad un potere di cui noi, che formuliamo la richiesta, ci consideriamo dotati”

E' dunque per Leoni la pretesa che fa sì che un obbligo sia giuridico e gli obblighi giuridici possono nascere solo in corrispondenza di pretese.

Leoni quindi individua i quattro elementi che una pretesa deve annoverare:

La pretesa deve contenere un favorevole giudizio di probabilità.

Oggetto di pretesa saranno eventi umani non necessari nè impossibili (poichè sarebbero naturalmente o inutili o impossibili da pretendere).

Su questo tema Leoni sfrutta i molteplici suoi studi giovanili su Pascal, Bernouilli e Leibniz e sul tentativo di sottoporre il comportamento umano a leggi probabilistiche prettamente matematiche.

Il secondo elemento da considerare è l'intervento, o meglio la “disposizione della persona che pretende ad ottenere con un qualche tipo di intervento il comportamento preteso, qualora esso non si verifichi spontaneamente”.

Il terzo elemento è in realtà una specificazione del secondo, e consiste nel potere di intervento.

Il quarto elemento costitutivo della pretesa è l'interesse.

Si ha una pretesa solo nel momento in cui qualcuno ritiene utile il verificarsi di un certo comportamento e dunque lo pretende.

Leoni però chiarisce che fin qui ci troviamo nel campo della pretesa di tipo soggettivo.

Affinchè essa diventi pretesa giuridica è necessario trasformarla in forma oggettiva o meglio che divenga probabilisticamente oggettiva.

Il primo requisito è quindi che ad essa faccia riscontro una probabilità di tipo oggettivo, cioè che essa abbia alta probabilità oggettivamente di riuscita indipendentemente da quello che pensa il richiedente.

Per fare un esempio anche la pretesa di un rapinatore ha una forte probabilità di essere soddisfatta (per il rapinatore), ma non per questo è giuridica.

Deve esserci un alto consenso comunitario a renderla effettiva.

Il secondo requisito è quindi che quella richiesta venga avanzata in un certo ambito ben prestabilito che la renda realizzabile alla luce del contesto specifico.

Questi sono i passaggi che fanno diventare la pretesa un diritto oggettivo e quindi valutabile a posteriori tanto che il Leoni definisce il diritto come un fenomeno storico.

Come dicevo in apertura il concetto è complesso ed è fondato su un ragionamento per gradi che Leoni sviluppa in tutti i suoi lavori e che vanno a sfociare nei principi che ho tentato maldestramente di riassumere.

Purtroppo un limite di Bruno Leoni è quello che per capirlo ed apprezzarlo davvero è necessario possedere una conoscenza completa, o quasi, delle sue opere e che la sua tragica scomparsa a soli 54 anni non gli hanno consentito probabilmente di raccogliere lui in qualche opera omnia il frutto delle sue decennali meditazioni.

Anche il suo libro più famoso "Freedom and the laws" non consente di ridurre schematicamente il suo eterodiretto pensiero.

Scritto da Riccardo Rinaldi

mercoledì 12 maggio 2010

Percorsi Liberali: IL Prof. ICHINO presenta L'ITALIA FATTA IN CASA - Ancona, 21 giugno 2010 ore 17,30

ANDREA ICHINO Professore ordinario all’Università di Bologna presenta il libro "L’ITALIA FATTA IN CASA Indagine sulla vera ricchezza degli italiani"
Interverranno:

MARIA PAOLA MERLONI Deputato Parlamento Italiano


EMMANUELE PAVOLINI Professore di sociologia all’Università di Macerata

Lunedì 21 giugno 2010 alle ore ore 17,30 presso il Rettorato dell’Universita’ Politecnica delle Marche
Piazza Roma 22  ANCONA

sabato 1 maggio 2010

LETTURE DIALOGICHE SU DEMOCRAZIA, LIBERALISMO, LIBERTA' DI INFORMAZIONE

Il Centro Studi Liberali B. Croce di Ancona ha organizzato una serie di incontri con gli studenti delle scuole superiori aventi per oggetto letture dialogiche sulla democrazia, il liberalismo e la libertà di informazione.


Giovedì 15 aprile alle ore 15,30 il Prof A Luccarini ha parlato sul tema origini e sviluppo della democrazia a partire dalla lettura del libro “La democrazia in trenta lezioni” di G. Sartori.

Giovedì 22 aprile alle ore 15,30 il Prof. R. Morelli ha parlato sul tema il liberalismo e il suo rapporto con la democrazia a partire dalla lettura del libro “Lo stato canaglia” di P. Ostellino.

Giovedì 29 aprile alle ore 15,30 il Prof. L. Brunelli ha parlato sul tema la libertà di informazione in uno stato democratico a partire dalla lettura dei libri “ La mia eredità sono io” di I. Montanelli e “Montanelli. L’anarchico borghese”.

Gli incontri si sono svolti presso la Casa delle Culture sita in Via Vallemiano – Ancona

Al termine di ogni conferenza è stato rilasciato agli studenti un attestato di partecipazione.

La manifestazione ha riscontrato un buon successo con una presenza media di oltre 50 studenti.

(di Riccardo Rinaldi)