Esiste un Cattolicesimo Liberale?
Molti si pongono la domanda se le teorie e la prassi del liberalismo siano compatibili con espressioni di religiosità come l’adesione alla fede Cristiana Cattolica.
Il liberalismo, in realtà, può considerarsi neutro e aperto a tutti i contributi che possono venire dalle culture più disparate. Il liberalismo non è una religione, né una filosofia totalizzante. Il liberalismo può essere definito “una teoria e una prassi per il controllo e la riduzione del potere, che muove dalla constatazione che gli individui, pur avendo gli stessi diritti, sono naturalmente diversi perché dotati di una conoscenza limitata e fallibile. L’uguaglianza di fronte alla legge (Rule of law) può essere vista come un tentativo di superare la disuguaglianza naturale”. (Atlante del Liberalismo di Raimondo Cubeddu)
Tornando al Cattolicesimo Liberale, questa è una importante tradizione che ha cercato di conciliare liberalismo e cattolicesimo, tra i cui esponenti si possono ricordare Lord Acton, W. Ropke, Luigi Einaudi, Don Luigi Sturzo, V. Mathieu, M. Novak, D. Antiseri.
Basterebbe citare il nome di Luigi Einaudi - economista, politico, governatore della Banca d’Italia, Presidente della Repubblica Italiana, uno dei più importanti pensatori liberali italiani - per rendere palese che liberalismo e cattolicesimo possono essere complementari.
Vorrei però focalizzare l’attenzione su Don Sturzo che condusse la sua azione politica vestendo l’abito talare.
“(tratto da Wikipedia) Tutta l'attività politica di Sturzo è fondata su una questione centrale: dare voce in politica ai cattolici. Sturzo si impegna per dare un'alternativa cattolica e sociale al movimento socialista.
Per Sturzo i cattolici si devono impegnare in politica, tuttavia tra politica e Chiesa deve esserci assoluta autonomia. La politica, essendo complessa, può essere mossa da princìpi cristiani, ma non si deve tornare alla vecchia rigidità e all'eccessivo schematismo del passato. Il Cristianesimo è, insomma, la principale fonte di ispirazione, ma non l'unica.
La società deve saper riconoscere le aspirazioni di ogni singolo individuo: “la base del fatto sociale è da ricercarsi nell'individuo” e l'individuo viene prima della società; la società è socialità: si fonda, cioè, su libere e coscienti attività relazionali.
Sturzo è contrario ad una società immobile ed il movimento è dato dalle relazioni interindividuali tra le persone; la società non deve essere un limite alla libertà dell'individuo. Non può essere, tuttavia, definito iperindividualista. All'interno di questo schema sociale multiforme la religione non può essere strumento di governo. Il cristianesimo ha dato qualcosa ad ogni corrente politica, quindi nessuno può dire di possedere il monopolio della verità religiosa.
L'individuo deve scegliere da sé se seguire la propria coscienza di buon cittadino o di credente; non è la Chiesa che deve indirizzarlo nell'atto della scelta, la quale attiene strettamente alla sfera individuale del singolo.
Il PPI nasce perciò come aconfessionale: la religione può influenzare, ma non imporre. In questo modo si palesa una concezione liberale del partito.
In economia Sturzo non è un liberale classico, ma da un lato denuncia il capitalismo di Stato che ritiene dilapidatore di risorse, e dall'altro rimane convinto della possibilità di interventi dello Stato in economia, anche se per un tempo breve e finalizzato ad un risultato. Il suo faro è la centralità della persona, non delle masse; è un fautore dello stato minimo e censura già all'epoca l'eccessivo partitismo. Si dichiara, inoltre, ostile a una concezione statale panteistica.
In questo modo fonda il Popolarismo, dottrina politica autonoma e originale, che non è altro che la messa in pratica della Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica, arricchita dal suo pensiero e lavorio, spesso profetica e -pur essendo prettamente pragmatica- profondamente intessuta eticamente.”
L'importanza di questo approccio di Don Sturzo è tanto più evidente oggi che è chiaro cosa può provocare un approccio diverso, quello teocratico. Un giorno, parlando molto intensamente con un mio amico, fervente ed impegnato cattolico, sostenevo che unire troppo la sfera religiosa e quella politica poteva portare a risultati negativi sia per la libertà che per la democrazia. Lui mi rispose che secondo il suo avviso le due sfere non potevano essere separate perchè la religiosità porta valori universali che non possono non permeare le leggi dello Stato. Gli dissi che il regime degli Ayatollah la pensava esattamente allo stesso modo, ma che l'IRAN non era per questo il paradiso in terra. Il mio amico ne fu molto colpito e iniziò a pensare come poter conciliare le due sfere... proprio come Sturzo. (di Claudio Ferretti)
mercoledì 6 gennaio 2010
sabato 2 gennaio 2010
LECTIO MAGISTRALIS “PREMIO ISAIAH BERLIN” di Piero Ostellino
C’è una costante che percorre tutto il pensiero di Isaiah Berlin. La ricerca delle radici del totalitarismo. Si sviluppa lungo tre direttrici. La prima riguarda la distorsione del concetto di libertà; dalla libertà liberale, libertà “negativa”, libertà “da” – come assenza di costrizione – alla libertà democratica, libertà “positiva”, libertà “di”, come auto-realizzazione. La seconda riguarda il contrasto fra l’Illuminismo razionalista francese e l’irrazionalismo contro-illuminista del Romanticismo tedesco - fra il primato della Ragione e quello della Volontà – entrambi forieri di totalitarismi. La terza direttrice riguarda la differenza fra “monismo” – la concezione che alle questioni etiche e politiche ci sia una risposta riconducibile a un solo sistema di valori - e “pluralismo di valori”, la concezione opposta che ci siano risposte plurime, ancorché conflittuali, ugualmente legittime.
Berlin è un empirista. Ciò che distingue il liberalismo dalle altre dottrine politiche è la metodologia della conoscenza. Quella liberale è empirica; quella delle altre dottrine è filosofica. La metodologia empirica della conoscenza si pone la domanda “come”: come stanno le cose. Quella filosofica si pone la domanda “perché”: perché delle cose. La risposta alla domanda “come” è verificabile nella realtà perchè è un giudizio di fatto. La risposta alla domanda “perché” non è verificabile nella realtà in quanto è un giudizio di valore. Un esempio di metodologia empirica della conoscenza è la frase di Adam Smith nella “Ricchezza delle nazioni” che non è dalla benevolenza del fornaio, del macellaio e del birraio che traiamo il nostro desinare, ma dal loro tornaconto. La proposizione è descrittiva: dice “come” sono gli uomini. Non prescrive nulla. La rappresentazione del comportamento dei tre è passibile di verifica se vera o falsa. Per constatare che è vera è sufficiente verificare che né il fornaio, né il macellaio, né il birraio regalano la propria produzione perché dalla vendita traggono giovamento come ne trae chi la acquista. Si perviene, così, alla definizione del mercato come quella forma di giustizia “commutativa” attraverso la quale ci si scambiano beni con vantaggio di entrambi i contraenti. Chiedere al mercato di realizzare la giustizia “retributiva” – di ubbidire a un principio etico: la giustizia sociale, l’eguaglianza e simili – e imporgli dall’esterno di farlo, è un non senso logico e una violenza politica.
E’ un nonsenso logico, perché ne snatura la vera funzione, che non è quella di produrre valori; è violenza politica, perché viola una delle libertà liberali, quella economica.
Il teorico della metodologia filosofica della conoscenza attribuisce, invece, il comportamento del fornaio, del macellaio e del birraio all’“egoismo” individualista e auspica un mondo eticamente fondato sull’”altruismo” universale. Il suo, però, è un “salto” logico - dall’essere al dover essere – inspiegabile se non col passaggio dall’individualismo liberale al totalitarismo collettivista: l’imposizione, in sede politica e in nome della “volontà
generale”, di comportamenti morali estranei al contesto economico nel quale si manifestano. Il cerchio qui si chiude con la trasformazione di una proposizione descrittiva (l’egoismo, come categoria dello spirito) in una prescrittiva (l’altruismo, come categoria normativa).
E’ qui che il liberalismo ha storicamente incrociato lo Scientismo come “metodo” di analisi delle Scienze naturali applicato alle Scienze sociali; ma se ne è anche discostato subito dopo. Quando l’Illuminismo ha coniugato lo Scientismo – che, per sua stessa natura, espone a costante verifica empirica le proprie affermazioni – col Razionalismo, con la pretesa della pura Ragione che i comportamenti umani ubbidiscano alle stesse leggi delle Scienze naturali, siano la conseguenza logica del “nesso causale” cui ubbidiscono la fisica e la meccanica, e, perciò, ugualmente prevedibili e sempre governabili. Il liberalismo ha compreso che sono le passioni che informano, e muovono, la Ragione, non viceversa; che i valori non si fondano né sulla Ragione, né sulla Scienza, ma sono scelte della coscienza individuale; che non può esserci una (sola) base razionale a tutte le convinzioni etiche e persino politiche né, tanto meno, una “razionalità collettiva”. Il liberalismo è, perciò, individualismo, spontaneismo; non indulge a astrazioni ideologiche collettive come “popolo”, “classe”, “razza” e simili. Le quali sono la giustificazione “etica” della negazione delle libertà individuali, in nome dell’affermazione di altre astrazioni ideologiche collettive, quali “l’utilità sociale”, “il progresso civile” e simili, politicamente mortificatrici, a loro volta, delle libertà soggettive.
Isaiah Berlin denuncia, a questo punto, le implicazioni politiche illiberali della libertà positiva che sacrifichi la realizzazione di sé associata alle passioni (la “falsa” identità dell’Individuo, o della collettività) a quella definita dalla Ragione (l’”autentica” identità dell’Individuo, o della collettività). Ma la libertà consiste nel fare ciò che si vuole, cioè anche nella possibilità di sbagliare, quale che sia l’interpretazione, autentica o falsa, della realizzazione di sé che se ne dia. C’è il rischio, inoltre, che qualcuno – l’autocrate, la classe sociale, la nazione e simili – pretenda di sapere quale è la realizzazione “autentica” di sé e la imponga coercitivamente.
E’, in senso lato, lo Stato etico. Ma è anche la logica che, nelle democrazie contemporanee, giustifica l’eccesso di spesa pubblica e la confisca – in nome dell’idea “autentica” di socialità – di ingenti risorse che i cittadini utilizzerebbero meglio, non solo per sé, anche nella produzione privata di beni e servizi collettivi oggi prodotti dallo Stato con grande spreco. La superiorità della libertà negativa, liberale, è che la libertà “da” è “la” libertà, indipendentemente da quale possa essere l’idea che ne hanno gli altri; sia che la associno all’agire moralmente, sia che la associno all’adeguarsi alla corrente della storia o quant’altro.
Un’altra implicazione, politicamente e socialmente negativa della libertà positiva – che Berlin non aveva previsto, ma che è sotto i nostri occhi - è la trasformazione, da parte della classe politica, di desideri personali in diritti universali, senza mediazione della Ragione. Le contro-indicazioni, qui, sono tre. La prima è l’impropria identificazione dei desideri con diritti, che provoca una anomala “inflazione” di questi ultimi. La seconda è la “bulimia democraticista” di chi rivendica un numero sempre maggiore di diritti, sovraccaricando la politica di domande e di aspettative, e riducendosi alla condizione di mendicità psicologica e di dipendenza politica dal potere cui si chiede di soddisfarli. La terza contro-indicazione – anche questa non teorizzata da Berlin, ma che sta diventando la “malattia senile” delle democrazie e le sta portando all’auto-distruzione per via fiscale - è che ad ogni diritto di qualcuno corrisponde un dovere di qualcun altro, che si concreta in una “violenza” esercitata dalla politica nei confronti di quest’ultimo. La fiscalità – come strumento di redistribuzione della ricchezza, non come contropartita di beni e servizi che lo Stato fornisce - è un forma di distorsione, di matrice moralistica e collettivistica, del rapporto fra l’Individuo e lo Stato.
Il “pluralismo di valori” – la compresenza, in una “società aperta”, di una pluralità di risposte, moralmente incommensurabili, fra loro conflittuali e politicamente non negoziabili, alle questioni etiche e politiche – assolve, infine, nel pensiero di Berlin, due funzioni. La prima è descrittiva della realtà “effettuale; che è sempre perfettibile, mai passibile di approdare alla perfezione. La seconda è esemplificativa del carattere realista, pluralista, umanista, gradualista, concretamente riformista del liberalismo.
La convinzione che la perfezione morale e politica sia realizzabile produce due conseguenze. A) nega validità al riformismo, cadendo, filosoficamente, nell’utopia e, politicamente, nel massimalismo; che finiscono col trasformarsi in conservatorismo, se non in reazione, in nome, e nell’attesa, di un obiettivo, via-via sempre più remoto, grandioso e mai empiricamente raggiungibile. E’ la parabola del bicchiere mezzo pieno – il riconoscimento (riformista, gradualista) che la globalizzazione ha sottratto dalla condizione di povertà milioni di cinesi, indiani, sudafricani, sudamericani – e del bicchiere mezzo vuoto, la condanna (massimalista, reazionaria) della globalizzazione perché non ha tolto
dalla povertà altri milioni di uomini. B) apre la strada al totalitarismo, nella convinzione che qualsiasi mezzo sia giustificabile per raggiungerla.
Berlin è un empirista. Ciò che distingue il liberalismo dalle altre dottrine politiche è la metodologia della conoscenza. Quella liberale è empirica; quella delle altre dottrine è filosofica. La metodologia empirica della conoscenza si pone la domanda “come”: come stanno le cose. Quella filosofica si pone la domanda “perché”: perché delle cose. La risposta alla domanda “come” è verificabile nella realtà perchè è un giudizio di fatto. La risposta alla domanda “perché” non è verificabile nella realtà in quanto è un giudizio di valore. Un esempio di metodologia empirica della conoscenza è la frase di Adam Smith nella “Ricchezza delle nazioni” che non è dalla benevolenza del fornaio, del macellaio e del birraio che traiamo il nostro desinare, ma dal loro tornaconto. La proposizione è descrittiva: dice “come” sono gli uomini. Non prescrive nulla. La rappresentazione del comportamento dei tre è passibile di verifica se vera o falsa. Per constatare che è vera è sufficiente verificare che né il fornaio, né il macellaio, né il birraio regalano la propria produzione perché dalla vendita traggono giovamento come ne trae chi la acquista. Si perviene, così, alla definizione del mercato come quella forma di giustizia “commutativa” attraverso la quale ci si scambiano beni con vantaggio di entrambi i contraenti. Chiedere al mercato di realizzare la giustizia “retributiva” – di ubbidire a un principio etico: la giustizia sociale, l’eguaglianza e simili – e imporgli dall’esterno di farlo, è un non senso logico e una violenza politica.
E’ un nonsenso logico, perché ne snatura la vera funzione, che non è quella di produrre valori; è violenza politica, perché viola una delle libertà liberali, quella economica.
Il teorico della metodologia filosofica della conoscenza attribuisce, invece, il comportamento del fornaio, del macellaio e del birraio all’“egoismo” individualista e auspica un mondo eticamente fondato sull’”altruismo” universale. Il suo, però, è un “salto” logico - dall’essere al dover essere – inspiegabile se non col passaggio dall’individualismo liberale al totalitarismo collettivista: l’imposizione, in sede politica e in nome della “volontà
generale”, di comportamenti morali estranei al contesto economico nel quale si manifestano. Il cerchio qui si chiude con la trasformazione di una proposizione descrittiva (l’egoismo, come categoria dello spirito) in una prescrittiva (l’altruismo, come categoria normativa).
E’ qui che il liberalismo ha storicamente incrociato lo Scientismo come “metodo” di analisi delle Scienze naturali applicato alle Scienze sociali; ma se ne è anche discostato subito dopo. Quando l’Illuminismo ha coniugato lo Scientismo – che, per sua stessa natura, espone a costante verifica empirica le proprie affermazioni – col Razionalismo, con la pretesa della pura Ragione che i comportamenti umani ubbidiscano alle stesse leggi delle Scienze naturali, siano la conseguenza logica del “nesso causale” cui ubbidiscono la fisica e la meccanica, e, perciò, ugualmente prevedibili e sempre governabili. Il liberalismo ha compreso che sono le passioni che informano, e muovono, la Ragione, non viceversa; che i valori non si fondano né sulla Ragione, né sulla Scienza, ma sono scelte della coscienza individuale; che non può esserci una (sola) base razionale a tutte le convinzioni etiche e persino politiche né, tanto meno, una “razionalità collettiva”. Il liberalismo è, perciò, individualismo, spontaneismo; non indulge a astrazioni ideologiche collettive come “popolo”, “classe”, “razza” e simili. Le quali sono la giustificazione “etica” della negazione delle libertà individuali, in nome dell’affermazione di altre astrazioni ideologiche collettive, quali “l’utilità sociale”, “il progresso civile” e simili, politicamente mortificatrici, a loro volta, delle libertà soggettive.
Isaiah Berlin denuncia, a questo punto, le implicazioni politiche illiberali della libertà positiva che sacrifichi la realizzazione di sé associata alle passioni (la “falsa” identità dell’Individuo, o della collettività) a quella definita dalla Ragione (l’”autentica” identità dell’Individuo, o della collettività). Ma la libertà consiste nel fare ciò che si vuole, cioè anche nella possibilità di sbagliare, quale che sia l’interpretazione, autentica o falsa, della realizzazione di sé che se ne dia. C’è il rischio, inoltre, che qualcuno – l’autocrate, la classe sociale, la nazione e simili – pretenda di sapere quale è la realizzazione “autentica” di sé e la imponga coercitivamente.
E’, in senso lato, lo Stato etico. Ma è anche la logica che, nelle democrazie contemporanee, giustifica l’eccesso di spesa pubblica e la confisca – in nome dell’idea “autentica” di socialità – di ingenti risorse che i cittadini utilizzerebbero meglio, non solo per sé, anche nella produzione privata di beni e servizi collettivi oggi prodotti dallo Stato con grande spreco. La superiorità della libertà negativa, liberale, è che la libertà “da” è “la” libertà, indipendentemente da quale possa essere l’idea che ne hanno gli altri; sia che la associno all’agire moralmente, sia che la associno all’adeguarsi alla corrente della storia o quant’altro.
Un’altra implicazione, politicamente e socialmente negativa della libertà positiva – che Berlin non aveva previsto, ma che è sotto i nostri occhi - è la trasformazione, da parte della classe politica, di desideri personali in diritti universali, senza mediazione della Ragione. Le contro-indicazioni, qui, sono tre. La prima è l’impropria identificazione dei desideri con diritti, che provoca una anomala “inflazione” di questi ultimi. La seconda è la “bulimia democraticista” di chi rivendica un numero sempre maggiore di diritti, sovraccaricando la politica di domande e di aspettative, e riducendosi alla condizione di mendicità psicologica e di dipendenza politica dal potere cui si chiede di soddisfarli. La terza contro-indicazione – anche questa non teorizzata da Berlin, ma che sta diventando la “malattia senile” delle democrazie e le sta portando all’auto-distruzione per via fiscale - è che ad ogni diritto di qualcuno corrisponde un dovere di qualcun altro, che si concreta in una “violenza” esercitata dalla politica nei confronti di quest’ultimo. La fiscalità – come strumento di redistribuzione della ricchezza, non come contropartita di beni e servizi che lo Stato fornisce - è un forma di distorsione, di matrice moralistica e collettivistica, del rapporto fra l’Individuo e lo Stato.
Il “pluralismo di valori” – la compresenza, in una “società aperta”, di una pluralità di risposte, moralmente incommensurabili, fra loro conflittuali e politicamente non negoziabili, alle questioni etiche e politiche – assolve, infine, nel pensiero di Berlin, due funzioni. La prima è descrittiva della realtà “effettuale; che è sempre perfettibile, mai passibile di approdare alla perfezione. La seconda è esemplificativa del carattere realista, pluralista, umanista, gradualista, concretamente riformista del liberalismo.
La convinzione che la perfezione morale e politica sia realizzabile produce due conseguenze. A) nega validità al riformismo, cadendo, filosoficamente, nell’utopia e, politicamente, nel massimalismo; che finiscono col trasformarsi in conservatorismo, se non in reazione, in nome, e nell’attesa, di un obiettivo, via-via sempre più remoto, grandioso e mai empiricamente raggiungibile. E’ la parabola del bicchiere mezzo pieno – il riconoscimento (riformista, gradualista) che la globalizzazione ha sottratto dalla condizione di povertà milioni di cinesi, indiani, sudafricani, sudamericani – e del bicchiere mezzo vuoto, la condanna (massimalista, reazionaria) della globalizzazione perché non ha tolto
dalla povertà altri milioni di uomini. B) apre la strada al totalitarismo, nella convinzione che qualsiasi mezzo sia giustificabile per raggiungerla.
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mercoledì 30 dicembre 2009
Evasioni Fiscali 2 - La Luna o il dito? (di Claudio Ferretti)
Pubblico il secondo intervento in risposta al Prof. Calafati , docente della Facoltà di Economia di Ancona, che aveva accolto delle mie considerazioni sul suo blog. Il Prof. Calafati pone una nuova questione: stiamo ancora alla contrapposizione tra individuo e Stato? - "e comunque - scriveva Calafati - noi di questa contrapposizione non ne possiamo più"
Gentile Prof. Calafati,
la ringrazio per l’opportunità che mi ha dato di chiarire gli obiettivi e i temi trattati all’incontro del Centro Studi Liberali Benedetto Croce sulla fiscalità .
Non posso che condividere quanto da lei affermato: oggi anche i Ministri fanno provocazioni quindi sarebbe meglio smettere. Tuttavia ritengo che chi non rappresenta le Istituzioni e non ha l’incarico di amministrare la res publica abbia quasi il dovere di porre certi temi all’attenzione della cittadinanza con l’obiettivo di far riflettere su questioni dove c’è spesso solo riflesso e quasi mai pensiero.
Visti gli interventi che sono seguiti al suo post e alla nostra iniziativa, credo che la nostra provocazione sia stata abbastanza inutile perché ci si è concentrati solo su di essa senza entrare nel merito della questione fiscale in Italia.
Torno quindi sul tema per cercare di spiegare perché ritengo che la questione fiscale sia centrale per una persona che vuole comportarsi come cittadino responsabile e non da suddito.
L’esclamazione dell’ex Ministro Padoa Schioppa: “Le tasse sono una cosa bellissima” e il titolo del libro di Facco “Se le tasse sono un furto non pagarle è legittima difesa” sono due sentenze estreme che non mi trovano d’accordo.
Circa la prima affermazione, che dire se un cassiere di panetteria esclamasse “Il prezzo del pane è una cosa bellissima”? Non so se a qualcuno è mai capitato di sentire una cosa del genere. A me non è capitato! Il prezzo del pane, più che bello, è necessario perché ci permette di avere un parametro per calcolare il valore del prodotto, di confrontare tale valore con quello di altre panetterie e con quello di beni succedanei o alternativi.
La seconda invece è un’espressione non così rara da sentire, ma provo a trasferire anche questa in panetteria: “Se il prezzo del pane è un furto, non pagarlo è legittima difesa”. Cosa significa? Prendo il pane e fuggo senza pagare nulla (quindi rubo)? Oppure, scelgo di non prendere il pane e lo vado a comprare da un panettiere che lo vende ad un prezzo da me ritenuto più onesto? In questo secondo caso credo che tutti ci potremmo ritrovare.
Tornando alla tassazione, la cosa si complica:
- con le tasse si pagano servizi che non sono misurabili in modo diretto
- poiché le tasse servono anche a ridistribuire ricchezza tra chi ha di più e chi ha di meno è normale che ci sia la percezione di ricevere meno di quanto si paga, salvo però mettere sul piatto della bilancia che la redistribuzione può essere utile a migliorare la convivenza.
- non pagare le tasse e dichiararlo è impossibile perché illegale. Come conseguenza ci sarebbe un prelievo coatto da parte dello Stato.
- non pagare le tasse e non usufruire anche in minima parte dei benefici dei servizi pubblici è impossibile (ad esempio per l’utilizzo delle strade e dei marciapiedi sei si abita in città)
- (ecc.ecc.)
Il rapporto tra il cittadino e lo Stato in tutte le sue forme è questione complessa, tuttavia credo che esistano gli elementi per sostenere che il nostro sistema fiscale sia iniquo perché:
a) esiste una pressione fiscale elevata su chi paga le tasse
b) c’è un certo lassismo nei confronti di chi non paga le tasse
c) l’impiego delle entrate fiscali è caratterizzato spesso da una certa inefficacia ed inefficienza dei servizi erogati.
Solo per fare alcuni esempi:
Sicurezza per i cittadini: Lo stato, si dice, dovrebbe garantire la sicurezza ma almeno un terzo del paese è in mano alla criminalità organizzata.
Certezza del Diritto e funzione Legislativa: Lo Stato dovrebbe garantire la certezza del diritto, l’Italia è il paese con più leggi e regolamenti tra i paesi occidentali, tanto che non si riescono neanche a contare. Queste producono continuamente nuove leggi e regolamenti per definire come e quando applicarli, rendendo di fatto l’incertezza del diritto una costante (c’è un interessante studio dell’Istituto Bruno Leoni che illustra l’iter folle del processo di semplificazione della nostra complessità normativa).
Amministrazione della Giustizia: Lo Stato, si dice, dovrebbe garantire la giustizia, invece abbiamo una giustizia civile con i tempi di giudizio più lunghi del mondo che di fatto rendono impossibile la tutela dei diritti (ma tutti parlano solo di quella penale che pure non gode di buona salute con la penalizzazione di quasi tutto, anche dei casi in cui comportamenti illeciti non vedono la presenza di vittima).
Amministrazione delle Carceri: Lo Stato dovrebbe garantire la sicurezza anche dei propri cittadini assicurati alla giustizia (spesso di classe) ma in Italia, facendo le debite proporzioni, abbiamo 4 volte il numero di morti violente in carcere rispetto agli USA.
Amministrazione della solidarietà pubblica: lo Stato, si dice, dovrebbe garantire chi si trova senza lavoro ed in difficoltà, ma come mai il sussidio viene dato solo a chi ha avuto un lavoro, magari nella grande industria e mai a chi non riesce neanche ad entrare nel mercato del lavoro? E perché l’impiego pubblico viene utilizzato come sussidio di disoccupazione ma solo per chi ha il privilegio di essere stato “prescelto”?
Gestione del pubblico impiego: Lo Stato dovrebbe garantire che per i pubblici impieghi si selezionino le persone più idonee e competenti a ricoprire quel ruolo eppure, spesso, i concorsi sono “truccati. Ma il dato più eclatante è che, anche quando le truffe vengono scoperte e accertate dagli organi competenti, avviene che colui che ha beneficiato di comportamenti illegittimi e scorretti rimane al proprio posto, alla faccia del merito altrui. E i partecipanti alle commissioni continuano a svolgere il loro importante ruolo in seno alla società.
Molti di questi esempi riguardano il vissuto quotidiano di tanti di noi. Esempi ben documentati nelle recenti pubblicazioni di Stella e Rizzo, di Ostellino e tanti altri testi divulgativi. Uno “stato della Nazione” si può evincere anche anche nelle annuali “Prediche inutili” della Corte dei Conti.
La cosa triste è che quando diversi anni fa studiavo nella vostra stessa facoltà di Economia ebbi l’opportunità di prendere a prestito dei vecchi libri degli anni 50 e 60 di Ernesto Rossi: Il Malgoverno, I nostri quattrini, Borse e Borsaioli, Settimo non rubare…. Libri che parlavano delle stesse cose e in sessanta anni il problema di fondo si è acutizzato, si è fatto patologico.
(e comunque noi di queste cose non ne possiamo più)
Io sono dell'avviso che non esiste l’individuo, per bene, e lo Stato, malfattore. Io penso che ci sia un problema di mancanza di senso civico da parte di molti cittadini italiani. Quanto allo Stato, quando ricercavo idee per la mia modesta tesi di Laurea, su una rivista di Economia che aveva il Prof. Sotte nel comitato scientifico, trovai una descrizione Stato data da Gaetano Salvemini che scriveva sull’Unità nel 1921: “lo Stato non esiste, esistono solo degli impiegati a cui non importa nulla di noi…”. Se messa insieme alla definizione di Bastiat: “lo Stato è quella finzione in cui tutti cercano di vivere alle spalle di tutti” , si potrebbe arrivare a dire che non c’è alcuna contrapposizione tra l’individuo e lo Stato. Anche questa affermazione non è del tutto vera. Esiste secondo me un problema di individui che non riescono a sentirsi cittadini, e uno Stato che è ostaggio di interessi corporativi e di parte. Uno Stato che non riesce a ricomporre tali interessi in una società libera e aperta che riconosca il merito e la responsabilità individuali come valori indispensabili per lo sviluppo e il benessere della società stessa. Questo sarebbe un ambito da approfondire per capire meglio l’ambiente in cui viviamo. Mi pongo molte domande: chi gestisce realmente le prerogative degli organi dello Stato in Italia? Quale è l’attuale ruolo della politica e dei partiti politici? Che tipo di democrazia è quella italiana? Quali sono gli interessi che sono rappresentati e quali interessi non lo sono? Quali sono i privilegi tutelati? Quanto costano questi privilegi al contribuente?
Non riusciamo a capire che l’insieme di tanti privilegi non fanno un diritto, ma alla fine qualcuno dovrà pagare, e tutti speculano sperando che sia sempre qualcun altro a ricevere il conto della spesa.
Possiamo pensare che le cose potranno andare avanti a lungo in questo modo? Anche se fosse possibile, sarebbe giusto? Quali sono le riforme che porterebbero a servizi pubblici più efficaci e meno costosi? Io potrei essere anche contento di pagare il livello di tassazione attuale (paragonabile a quello dei paesi scandinavi), ma vorrei allora che lo Stato esistesse e funzionasse, svolgendo bene almeno il ruolo a cui è preposto (la sicurezza, la giustizia nei tribunali, le grandi infrastrutture, il sostegno a chi si trova in difficoltà in malattia o nell’indigenza). Ma è davvero così?
Gentile Prof. Calafati,
la ringrazio per l’opportunità che mi ha dato di chiarire gli obiettivi e i temi trattati all’incontro del Centro Studi Liberali Benedetto Croce sulla fiscalità .
Non posso che condividere quanto da lei affermato: oggi anche i Ministri fanno provocazioni quindi sarebbe meglio smettere. Tuttavia ritengo che chi non rappresenta le Istituzioni e non ha l’incarico di amministrare la res publica abbia quasi il dovere di porre certi temi all’attenzione della cittadinanza con l’obiettivo di far riflettere su questioni dove c’è spesso solo riflesso e quasi mai pensiero.
Visti gli interventi che sono seguiti al suo post e alla nostra iniziativa, credo che la nostra provocazione sia stata abbastanza inutile perché ci si è concentrati solo su di essa senza entrare nel merito della questione fiscale in Italia.
Torno quindi sul tema per cercare di spiegare perché ritengo che la questione fiscale sia centrale per una persona che vuole comportarsi come cittadino responsabile e non da suddito.
L’esclamazione dell’ex Ministro Padoa Schioppa: “Le tasse sono una cosa bellissima” e il titolo del libro di Facco “Se le tasse sono un furto non pagarle è legittima difesa” sono due sentenze estreme che non mi trovano d’accordo.
Circa la prima affermazione, che dire se un cassiere di panetteria esclamasse “Il prezzo del pane è una cosa bellissima”? Non so se a qualcuno è mai capitato di sentire una cosa del genere. A me non è capitato! Il prezzo del pane, più che bello, è necessario perché ci permette di avere un parametro per calcolare il valore del prodotto, di confrontare tale valore con quello di altre panetterie e con quello di beni succedanei o alternativi.
La seconda invece è un’espressione non così rara da sentire, ma provo a trasferire anche questa in panetteria: “Se il prezzo del pane è un furto, non pagarlo è legittima difesa”. Cosa significa? Prendo il pane e fuggo senza pagare nulla (quindi rubo)? Oppure, scelgo di non prendere il pane e lo vado a comprare da un panettiere che lo vende ad un prezzo da me ritenuto più onesto? In questo secondo caso credo che tutti ci potremmo ritrovare.
Tornando alla tassazione, la cosa si complica:
- con le tasse si pagano servizi che non sono misurabili in modo diretto
- poiché le tasse servono anche a ridistribuire ricchezza tra chi ha di più e chi ha di meno è normale che ci sia la percezione di ricevere meno di quanto si paga, salvo però mettere sul piatto della bilancia che la redistribuzione può essere utile a migliorare la convivenza.
- non pagare le tasse e dichiararlo è impossibile perché illegale. Come conseguenza ci sarebbe un prelievo coatto da parte dello Stato.
- non pagare le tasse e non usufruire anche in minima parte dei benefici dei servizi pubblici è impossibile (ad esempio per l’utilizzo delle strade e dei marciapiedi sei si abita in città)
- (ecc.ecc.)
Il rapporto tra il cittadino e lo Stato in tutte le sue forme è questione complessa, tuttavia credo che esistano gli elementi per sostenere che il nostro sistema fiscale sia iniquo perché:
a) esiste una pressione fiscale elevata su chi paga le tasse
b) c’è un certo lassismo nei confronti di chi non paga le tasse
c) l’impiego delle entrate fiscali è caratterizzato spesso da una certa inefficacia ed inefficienza dei servizi erogati.
Solo per fare alcuni esempi:
Sicurezza per i cittadini: Lo stato, si dice, dovrebbe garantire la sicurezza ma almeno un terzo del paese è in mano alla criminalità organizzata.
Certezza del Diritto e funzione Legislativa: Lo Stato dovrebbe garantire la certezza del diritto, l’Italia è il paese con più leggi e regolamenti tra i paesi occidentali, tanto che non si riescono neanche a contare. Queste producono continuamente nuove leggi e regolamenti per definire come e quando applicarli, rendendo di fatto l’incertezza del diritto una costante (c’è un interessante studio dell’Istituto Bruno Leoni che illustra l’iter folle del processo di semplificazione della nostra complessità normativa).
Amministrazione della Giustizia: Lo Stato, si dice, dovrebbe garantire la giustizia, invece abbiamo una giustizia civile con i tempi di giudizio più lunghi del mondo che di fatto rendono impossibile la tutela dei diritti (ma tutti parlano solo di quella penale che pure non gode di buona salute con la penalizzazione di quasi tutto, anche dei casi in cui comportamenti illeciti non vedono la presenza di vittima).
Amministrazione delle Carceri: Lo Stato dovrebbe garantire la sicurezza anche dei propri cittadini assicurati alla giustizia (spesso di classe) ma in Italia, facendo le debite proporzioni, abbiamo 4 volte il numero di morti violente in carcere rispetto agli USA.
Amministrazione della solidarietà pubblica: lo Stato, si dice, dovrebbe garantire chi si trova senza lavoro ed in difficoltà, ma come mai il sussidio viene dato solo a chi ha avuto un lavoro, magari nella grande industria e mai a chi non riesce neanche ad entrare nel mercato del lavoro? E perché l’impiego pubblico viene utilizzato come sussidio di disoccupazione ma solo per chi ha il privilegio di essere stato “prescelto”?
Gestione del pubblico impiego: Lo Stato dovrebbe garantire che per i pubblici impieghi si selezionino le persone più idonee e competenti a ricoprire quel ruolo eppure, spesso, i concorsi sono “truccati. Ma il dato più eclatante è che, anche quando le truffe vengono scoperte e accertate dagli organi competenti, avviene che colui che ha beneficiato di comportamenti illegittimi e scorretti rimane al proprio posto, alla faccia del merito altrui. E i partecipanti alle commissioni continuano a svolgere il loro importante ruolo in seno alla società.
Molti di questi esempi riguardano il vissuto quotidiano di tanti di noi. Esempi ben documentati nelle recenti pubblicazioni di Stella e Rizzo, di Ostellino e tanti altri testi divulgativi. Uno “stato della Nazione” si può evincere anche anche nelle annuali “Prediche inutili” della Corte dei Conti.
La cosa triste è che quando diversi anni fa studiavo nella vostra stessa facoltà di Economia ebbi l’opportunità di prendere a prestito dei vecchi libri degli anni 50 e 60 di Ernesto Rossi: Il Malgoverno, I nostri quattrini, Borse e Borsaioli, Settimo non rubare…. Libri che parlavano delle stesse cose e in sessanta anni il problema di fondo si è acutizzato, si è fatto patologico.
(e comunque noi di queste cose non ne possiamo più)
Io sono dell'avviso che non esiste l’individuo, per bene, e lo Stato, malfattore. Io penso che ci sia un problema di mancanza di senso civico da parte di molti cittadini italiani. Quanto allo Stato, quando ricercavo idee per la mia modesta tesi di Laurea, su una rivista di Economia che aveva il Prof. Sotte nel comitato scientifico, trovai una descrizione Stato data da Gaetano Salvemini che scriveva sull’Unità nel 1921: “lo Stato non esiste, esistono solo degli impiegati a cui non importa nulla di noi…”. Se messa insieme alla definizione di Bastiat: “lo Stato è quella finzione in cui tutti cercano di vivere alle spalle di tutti” , si potrebbe arrivare a dire che non c’è alcuna contrapposizione tra l’individuo e lo Stato. Anche questa affermazione non è del tutto vera. Esiste secondo me un problema di individui che non riescono a sentirsi cittadini, e uno Stato che è ostaggio di interessi corporativi e di parte. Uno Stato che non riesce a ricomporre tali interessi in una società libera e aperta che riconosca il merito e la responsabilità individuali come valori indispensabili per lo sviluppo e il benessere della società stessa. Questo sarebbe un ambito da approfondire per capire meglio l’ambiente in cui viviamo. Mi pongo molte domande: chi gestisce realmente le prerogative degli organi dello Stato in Italia? Quale è l’attuale ruolo della politica e dei partiti politici? Che tipo di democrazia è quella italiana? Quali sono gli interessi che sono rappresentati e quali interessi non lo sono? Quali sono i privilegi tutelati? Quanto costano questi privilegi al contribuente?
Non riusciamo a capire che l’insieme di tanti privilegi non fanno un diritto, ma alla fine qualcuno dovrà pagare, e tutti speculano sperando che sia sempre qualcun altro a ricevere il conto della spesa.
Possiamo pensare che le cose potranno andare avanti a lungo in questo modo? Anche se fosse possibile, sarebbe giusto? Quali sono le riforme che porterebbero a servizi pubblici più efficaci e meno costosi? Io potrei essere anche contento di pagare il livello di tassazione attuale (paragonabile a quello dei paesi scandinavi), ma vorrei allora che lo Stato esistesse e funzionasse, svolgendo bene almeno il ruolo a cui è preposto (la sicurezza, la giustizia nei tribunali, le grandi infrastrutture, il sostegno a chi si trova in difficoltà in malattia o nell’indigenza). Ma è davvero così?
venerdì 4 dicembre 2009
Introduzione alla Relazione di Piero Ostellino
Con la lettura del libro di Ostellino, Lo Stato Canaglia, sono tornato alla mia formazione e alle mie letture sin dai tempi dell’università, quando ho tolto molta polvere da diversi libri di Ernesto Rossi presenti nella biblioteca della nostra facoltà di Economia. Questi testi avevano dei titoli singolari: Il Malgoverno, Settimo Non Rubare, I nostri Quattrini, Borse e Borsaioli che mi hanno invogliato a leggere le Prediche Inutili di Einaudi ed altri ancora.
In effetti in Italia esiste un’ampia letteratura ed un filone culturale di analisi delle distorsioni di quello che chiamiamo Stato con tutte le sue ramificazioni e delle relazioni di questo con Economia, attraverso le corporazioni, e con la benedizione delle istituzioni religiose (che per dirla con Don Romolo Murri, non sono stato il blocco di formazione di una forte coscienza civile e di cittadinanza). Questo lavoro di analisi, denuncia e proposta, però, non ha prodotto quasi nulla di positivo, anzi, si è arrivati ad una progressiva degenerazione, nonostante che alcune posizioni siano state fatte proprio anche da accademici che hanno ricoperto o ricoprono ruoli di governo vedi i contributi forniti da “Lo Stato Padrone” di Martino e “Lo Stato Criminogeno” di Tremonti (che poi arrivato al potere si sta comportando come quel curato che predica bene e razzola male a dimostrazione che le categorie delle idee a nulla servono se non si è disposti a servirle con l’azione).
I principi molto pragmatici del liberalismo, quale che sia la voce che li propone, scivolano come l’acqua su questo paese impermeabile a tutto e si arriva ad una situazione fotografata molto bene con “la Casta” e “la Deriva” di Giannantonio Stella e Sergio Rizzo (Corrieristi anche loro come Ostellino).
C’è una questione culturale italiana che porta ad uno scarsissimo senso civico e si riverbera nella classe politica che è espressione del paese.
Qualcuno fa risalire le origini del declino culturale italiano, inteso come mancanza di senso civico, prima ancora che assenza dell’approccio liberale, alla controriforma. Altri vedono il problema storico nell’unità nazionale etero diretta e poco sentita, chi invece nel regime fascista e poi nel regime partitocratico e la cultura cattolica e comunista che ne è stato alla base. L’immediato dopoguerra è stato caratterizzato dalla sconfitta, di chi voleva una discontinuità, del Partito d’Azione, in prima linea, ma anche dei cattolici liberali come Don Luigi Sturzo e la possibilità iniziare un nuovo corso dove, in sistema paese libero, si potessero creare i presupposti per un più forte senso civico e di responsabilità individuale.
La nascita della Repubblica è stata caratterizzata da una continuità con il ventennio fascista, si è rinunciato a dare ai mercati regole liberali, e si è deciso di operare attraverso grandi enti pubblici, inoltre non è stata riformata la pubblica amministrazione. Questo ha creato il consolidarsi di vecchi grumi di interessi e di assistenzialismo e se ne sono creati di nuovi. In un modello, per dirla alla Bastiat, tutti vogliono vivere alle spalle di tutti.
Il motto araldico della nostra Repubblica, come diceva Ernesto Rossi dovrebbe essere “acca nisciuno è fesso”…. Anche qui mi torna in mente una storiella dello stesso Rossi: cinque operai arabi facchini presso un cantiere navale all’inizio del secolo scorso, che portavano una barra di acciaio sulle spalle, l’ultimo si abbassava un poco per far portare il peso agli altri. Ciascuno di loro faceva lo stesso, ma cosi facendo dopo pochi metri tutti erano carponi e faticavano molto di più che se fossero stati uniti del dividersi onestamente il lavoro.
Ecco questo è il comportamento di noi Italiani che porta poi ad avere uno Stato Canaglia. (di Claudio Ferretti)
In effetti in Italia esiste un’ampia letteratura ed un filone culturale di analisi delle distorsioni di quello che chiamiamo Stato con tutte le sue ramificazioni e delle relazioni di questo con Economia, attraverso le corporazioni, e con la benedizione delle istituzioni religiose (che per dirla con Don Romolo Murri, non sono stato il blocco di formazione di una forte coscienza civile e di cittadinanza). Questo lavoro di analisi, denuncia e proposta, però, non ha prodotto quasi nulla di positivo, anzi, si è arrivati ad una progressiva degenerazione, nonostante che alcune posizioni siano state fatte proprio anche da accademici che hanno ricoperto o ricoprono ruoli di governo vedi i contributi forniti da “Lo Stato Padrone” di Martino e “Lo Stato Criminogeno” di Tremonti (che poi arrivato al potere si sta comportando come quel curato che predica bene e razzola male a dimostrazione che le categorie delle idee a nulla servono se non si è disposti a servirle con l’azione).
I principi molto pragmatici del liberalismo, quale che sia la voce che li propone, scivolano come l’acqua su questo paese impermeabile a tutto e si arriva ad una situazione fotografata molto bene con “la Casta” e “la Deriva” di Giannantonio Stella e Sergio Rizzo (Corrieristi anche loro come Ostellino).
C’è una questione culturale italiana che porta ad uno scarsissimo senso civico e si riverbera nella classe politica che è espressione del paese.
Qualcuno fa risalire le origini del declino culturale italiano, inteso come mancanza di senso civico, prima ancora che assenza dell’approccio liberale, alla controriforma. Altri vedono il problema storico nell’unità nazionale etero diretta e poco sentita, chi invece nel regime fascista e poi nel regime partitocratico e la cultura cattolica e comunista che ne è stato alla base. L’immediato dopoguerra è stato caratterizzato dalla sconfitta, di chi voleva una discontinuità, del Partito d’Azione, in prima linea, ma anche dei cattolici liberali come Don Luigi Sturzo e la possibilità iniziare un nuovo corso dove, in sistema paese libero, si potessero creare i presupposti per un più forte senso civico e di responsabilità individuale.
La nascita della Repubblica è stata caratterizzata da una continuità con il ventennio fascista, si è rinunciato a dare ai mercati regole liberali, e si è deciso di operare attraverso grandi enti pubblici, inoltre non è stata riformata la pubblica amministrazione. Questo ha creato il consolidarsi di vecchi grumi di interessi e di assistenzialismo e se ne sono creati di nuovi. In un modello, per dirla alla Bastiat, tutti vogliono vivere alle spalle di tutti.
Il motto araldico della nostra Repubblica, come diceva Ernesto Rossi dovrebbe essere “acca nisciuno è fesso”…. Anche qui mi torna in mente una storiella dello stesso Rossi: cinque operai arabi facchini presso un cantiere navale all’inizio del secolo scorso, che portavano una barra di acciaio sulle spalle, l’ultimo si abbassava un poco per far portare il peso agli altri. Ciascuno di loro faceva lo stesso, ma cosi facendo dopo pochi metri tutti erano carponi e faticavano molto di più che se fossero stati uniti del dividersi onestamente il lavoro.
Ecco questo è il comportamento di noi Italiani che porta poi ad avere uno Stato Canaglia. (di Claudio Ferretti)
Da sinistra: Gianni Padalino, Piero Ostellino, Carlo Mancini, Claudio Ferretti
lunedì 30 novembre 2009
Evasioni Fiscali (di Claudio Ferretti)
Pubblico la prima risposta data al Prof. Calafati , docente della Facoltà di Economia di Ancona, che aveva fortemente criticato sul suo Blog il titolo della presentazione del Libro di Leonardo Facco. Da tale critica è nata una interessante e pacata discussione sul ruolo della fiscalità e lo stato della democrazia in Italia.
Ringrazio il Prof. Calafati per questo intervento sul suo blog che ha suscitato così tante reazioni per molti aspetti giustamente indignate. Confesso di essere uno degli organizzatori dell’incontro e socio del Centro Studi Benedetto Croce di Ancona, al quale dedico parte del poco tempo disponibile che mi resta dal lavoro (sono anche lavoratore dipendente e le mie tasse e contributi sono trattenuti dallo stipendio, e quello che rimane adeguatamente tassato ogni volta che consumo). La nostra associazione non è legata al alcun partito politico quindi neanche al movimento libertario. Il manifesto riprendeva, come correttamente riportato da Valentina, il titolo del libro scritto da Leonardo Facco. Tale titolo è sicuramente provocatorio ai limiti dell’istigazione a delinquere, anche l’autore è altrettanto provocatorio ed è per questo che l’abbiamo scelto. Dopo diversi incontro molto “politicamente corretti” abbiamo deciso quest’anno di proporre alla cittadinanza due incontri “politicamente scorretti”. Una cosa non è stata notata, che oltre a Leonardo Facco, tra i relatori era presente anche Giorgio Fidenato, imprenditore di Pordenone, il quale ha intrapreso una battaglia legale e non violenta contro lo Stato rifiutandosi di ricoprire il ruolo di sostituto di imposta. Il Fidenato da diversi mesi versa tutto lo stipendio lordo ai 5 dipendenti delle sua associazione che a loro volta possono pagarsi direttamente le tasse. Peccato che le autorità preposte non accettano tali versamenti. L’operazione è avvenuta con una comunicazione preventiva mezzo raccomandata a/r all’agenzia delle entrate, all’inps, al ministero delle finanze e a tutti i suoi dipendenti. Fidenato è oggi volontariamente sotto processo (metodo socratico per cambiare una legge, considerata ingiusta e incostituzionale, dal basso che poco si addice ai “furbetti del quartiere” o ai “furboni nazionali” che fanno di tutto per NON farsi processare). Si è discusso anche di come la legislazione in materia di lavoro consideri il lavoratore dipendente un soggetto debole, da tutelare nei confronti del “padrone” (forse a ragione) ma anche da se stesso (forse un po’ meno a ragione). Si è discusso del sistema schiavista americano, dove il padrone si appropriava del lavoro dello schiavo dando in cambio cibo, un tetto e cure mediche. Si è discusso di altri sistemi, proprio della Svizzera, dove chi non paga le tasse viene velocemente smascherato, ma dove ogni anno si indicono referendum in materia fiscale mettendo a confronto costi e benefici di questa o quella imposta (può essere considerata la Svizzera uno Stato Democratico?). Devo dire che la partecipazione del pubblico al dibattito è stata molto ampia e non senza polemiche. Non siamo riusciti a discutere di tanti argomenti ma sarei veramente contento se, proprio con il Prof. Calafati, si potesse organizzare un prossimo incontro con il titolo che vorrà dare lui, gettare maggiore luce sul tema della fiscalità di cui si parla e si scrive molto ma del quale si sa ben poco (provate a fare una ricerca su internet e su un nervo così scoperto, su di un tema di così grande rilevanza per ciascuno di noi troverete ben poco di utile).
Non sono certo come il Prof. Calafati sul fatto che l’evasione fiscale sia la causa dell’erosione delle basi morali e politiche della democrazia italiana, forse ne è l’effetto.
Credo che valga la pena di approfondire il tema e le ralazioni di causa/effetto. Mi limito a proporre un’altra provocazione citata dal Facco, se la democrazia consiste in “due lupi e un agnello che decidono cosa si mangia a cena” non ne sarei tanto entusiasta, è forse meglio declinare il concetto di democrazia collegandolo a quelli di Democrazia Liberale, di Stato di Diritto, di Rule of Law ecc.ecc. concetti assai vaghi in Italia.
Rispondo infine ai punti sollevati confermando la nostra incoerenza con il titolo:
a) il Centro Studi Benedetto Croce è stato, come altre volte, gentilmente ospitato dalla Facoltà di Economia, che dei soldi pubblici, anche i miei, spero faccia buon uso. Di questa opportunità gratuita abbiamo sempre ringraziato e sempre ringrazieremo finché che ne sarà data possibilità
b) Il Centro Studi Benedetto Croce NON ha preso alcun contributo pubblico per l’incontro in oggetto ne per quello che sta organizzando il 3 dicembre con Piero Ostellino presso il Rettorato
c) Non so cosa avrebbe detto Benedetto Croce, liberale, vedendo accostato il suo nome all’Elogio dell’Evasore Fiscale. So che i liberali in Italia, oltre ad essere stati talmente pochi da considerarsi spesso poco italiani, sono sempre stati molto litigiosi tra loro, quindi non è escluso che ci avrebbe diffidati. Mi piacerebbe pensare però che si fosse potuto esprimere alla Voltaire: “Non condivido le vostre idee ma sono disposto a dare la vita perche voi le possiate esprimere”.
Ringrazio il Prof. Calafati per questo intervento sul suo blog che ha suscitato così tante reazioni per molti aspetti giustamente indignate. Confesso di essere uno degli organizzatori dell’incontro e socio del Centro Studi Benedetto Croce di Ancona, al quale dedico parte del poco tempo disponibile che mi resta dal lavoro (sono anche lavoratore dipendente e le mie tasse e contributi sono trattenuti dallo stipendio, e quello che rimane adeguatamente tassato ogni volta che consumo). La nostra associazione non è legata al alcun partito politico quindi neanche al movimento libertario. Il manifesto riprendeva, come correttamente riportato da Valentina, il titolo del libro scritto da Leonardo Facco. Tale titolo è sicuramente provocatorio ai limiti dell’istigazione a delinquere, anche l’autore è altrettanto provocatorio ed è per questo che l’abbiamo scelto. Dopo diversi incontro molto “politicamente corretti” abbiamo deciso quest’anno di proporre alla cittadinanza due incontri “politicamente scorretti”. Una cosa non è stata notata, che oltre a Leonardo Facco, tra i relatori era presente anche Giorgio Fidenato, imprenditore di Pordenone, il quale ha intrapreso una battaglia legale e non violenta contro lo Stato rifiutandosi di ricoprire il ruolo di sostituto di imposta. Il Fidenato da diversi mesi versa tutto lo stipendio lordo ai 5 dipendenti delle sua associazione che a loro volta possono pagarsi direttamente le tasse. Peccato che le autorità preposte non accettano tali versamenti. L’operazione è avvenuta con una comunicazione preventiva mezzo raccomandata a/r all’agenzia delle entrate, all’inps, al ministero delle finanze e a tutti i suoi dipendenti. Fidenato è oggi volontariamente sotto processo (metodo socratico per cambiare una legge, considerata ingiusta e incostituzionale, dal basso che poco si addice ai “furbetti del quartiere” o ai “furboni nazionali” che fanno di tutto per NON farsi processare). Si è discusso anche di come la legislazione in materia di lavoro consideri il lavoratore dipendente un soggetto debole, da tutelare nei confronti del “padrone” (forse a ragione) ma anche da se stesso (forse un po’ meno a ragione). Si è discusso del sistema schiavista americano, dove il padrone si appropriava del lavoro dello schiavo dando in cambio cibo, un tetto e cure mediche. Si è discusso di altri sistemi, proprio della Svizzera, dove chi non paga le tasse viene velocemente smascherato, ma dove ogni anno si indicono referendum in materia fiscale mettendo a confronto costi e benefici di questa o quella imposta (può essere considerata la Svizzera uno Stato Democratico?). Devo dire che la partecipazione del pubblico al dibattito è stata molto ampia e non senza polemiche. Non siamo riusciti a discutere di tanti argomenti ma sarei veramente contento se, proprio con il Prof. Calafati, si potesse organizzare un prossimo incontro con il titolo che vorrà dare lui, gettare maggiore luce sul tema della fiscalità di cui si parla e si scrive molto ma del quale si sa ben poco (provate a fare una ricerca su internet e su un nervo così scoperto, su di un tema di così grande rilevanza per ciascuno di noi troverete ben poco di utile).
Non sono certo come il Prof. Calafati sul fatto che l’evasione fiscale sia la causa dell’erosione delle basi morali e politiche della democrazia italiana, forse ne è l’effetto.
Credo che valga la pena di approfondire il tema e le ralazioni di causa/effetto. Mi limito a proporre un’altra provocazione citata dal Facco, se la democrazia consiste in “due lupi e un agnello che decidono cosa si mangia a cena” non ne sarei tanto entusiasta, è forse meglio declinare il concetto di democrazia collegandolo a quelli di Democrazia Liberale, di Stato di Diritto, di Rule of Law ecc.ecc. concetti assai vaghi in Italia.
Rispondo infine ai punti sollevati confermando la nostra incoerenza con il titolo:
a) il Centro Studi Benedetto Croce è stato, come altre volte, gentilmente ospitato dalla Facoltà di Economia, che dei soldi pubblici, anche i miei, spero faccia buon uso. Di questa opportunità gratuita abbiamo sempre ringraziato e sempre ringrazieremo finché che ne sarà data possibilità
b) Il Centro Studi Benedetto Croce NON ha preso alcun contributo pubblico per l’incontro in oggetto ne per quello che sta organizzando il 3 dicembre con Piero Ostellino presso il Rettorato
c) Non so cosa avrebbe detto Benedetto Croce, liberale, vedendo accostato il suo nome all’Elogio dell’Evasore Fiscale. So che i liberali in Italia, oltre ad essere stati talmente pochi da considerarsi spesso poco italiani, sono sempre stati molto litigiosi tra loro, quindi non è escluso che ci avrebbe diffidati. Mi piacerebbe pensare però che si fosse potuto esprimere alla Voltaire: “Non condivido le vostre idee ma sono disposto a dare la vita perche voi le possiate esprimere”.
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venerdì 27 novembre 2009
PRESENTAZIONE DEL LIBRO: “LO STATO CANAGLIA Come la cattiva politica continua a soffocare l'Italia! - di PIERO OSTELLINO
Giovedì 3 dicembre 2009
ore 17.30
Rettorato dell'Università Politecnica delle Marche
Piazza Roma 22
Ancona
PIERO OSTELLINO AD ANCONA
COMUNICATO STAMPA. (O.1) Ostellino mette sulla bilancia una serie serrata di questioni di capitale importanza. Riforme strutturali interne costituzionali, istituzionali, della Pubblica amministrazione, del sistema giudiziario, la semplificazione delle leggi e dei regolamenti, il ruolo dei sindacati nel mercato del lavoro. Analizza come lo Stato italiano non sia riuscito in quasi settantanni di governo a ripulire il paese da interessi corporativi e vizi consociativi, cartelli degli oligopoli, concorrenza sleale in un mercato non libero.
A peggiorare il quadro la connivenza dei media con lo status quo, del potere politico con la prassi amministrativa.
E se la chiglia fa acqua da tutte le parti, come alleggerire l'apparato statale, ridurre la spesa pubblica e la pressione fiscale?
Soprattutto fino ad oggi che fine hanno fatto gli interventi pubblici a sostegno delle imprese, delle grandi aziende, degli ospedali delle Università, del Meridione d'Italia visto che non hanno salvato il sistema paese? E che fine faranno?
Qual è il rimedio al disastroso stato di salute del sistema produttivo?
La questione si sposta allora dal bene comune alla responsabilità individuale di ciascun cittadino? Onesto, possibilmente. Gli individui allora dovrebbero essere capaci da soli di decidere del proprio bene. Se lo sono, cosa aspettano a farlo?
Diceva Salvemini che in Italia i debiti sono pubblici e i profitti privati.
Il dibattito che seguirà alla presentazione cui interverrà l'autore stesso, Piero Ostellino, sarà una rara occasione per riflettere sul fatto che la società perfetta non esiste su questa terra ma che sia almeno auspicabile renderla migliore nella consapevolezza che i diritti costano e che ad ogni diritto corrisponde un dovere. Anche il dovere di rinunciare a qualcosa per godere del bene pubblico. E se i diritti costano, quanto costa la libertà?
ore 17.30
Rettorato dell'Università Politecnica delle Marche
Piazza Roma 22
Ancona
PIERO OSTELLINO AD ANCONA
COMUNICATO STAMPA. (O.1) Ostellino mette sulla bilancia una serie serrata di questioni di capitale importanza. Riforme strutturali interne costituzionali, istituzionali, della Pubblica amministrazione, del sistema giudiziario, la semplificazione delle leggi e dei regolamenti, il ruolo dei sindacati nel mercato del lavoro. Analizza come lo Stato italiano non sia riuscito in quasi settantanni di governo a ripulire il paese da interessi corporativi e vizi consociativi, cartelli degli oligopoli, concorrenza sleale in un mercato non libero.
A peggiorare il quadro la connivenza dei media con lo status quo, del potere politico con la prassi amministrativa.
E se la chiglia fa acqua da tutte le parti, come alleggerire l'apparato statale, ridurre la spesa pubblica e la pressione fiscale?
Soprattutto fino ad oggi che fine hanno fatto gli interventi pubblici a sostegno delle imprese, delle grandi aziende, degli ospedali delle Università, del Meridione d'Italia visto che non hanno salvato il sistema paese? E che fine faranno?
Qual è il rimedio al disastroso stato di salute del sistema produttivo?
La questione si sposta allora dal bene comune alla responsabilità individuale di ciascun cittadino? Onesto, possibilmente. Gli individui allora dovrebbero essere capaci da soli di decidere del proprio bene. Se lo sono, cosa aspettano a farlo?
Diceva Salvemini che in Italia i debiti sono pubblici e i profitti privati.
Il dibattito che seguirà alla presentazione cui interverrà l'autore stesso, Piero Ostellino, sarà una rara occasione per riflettere sul fatto che la società perfetta non esiste su questa terra ma che sia almeno auspicabile renderla migliore nella consapevolezza che i diritti costano e che ad ogni diritto corrisponde un dovere. Anche il dovere di rinunciare a qualcosa per godere del bene pubblico. E se i diritti costano, quanto costa la libertà?
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lunedì 16 novembre 2009
PIERO OSTELLINO PRESENTA "LO STATO CANAGLIA"!!!!
Giovedì 3 dicembre 2009 - presso il Rettorato dell'Università di Ancona in Piazza Roma alle ore 17,30 il Grande Giornalista del Corriere Della Sera Piero Ostellino presenta il suo ultimo libro "Lo Stato Canaglia" edito da Rizzoli.
"Viviamo, si dice, in un Paese libero. Nulla di più falso: oggi in Italia tutto è vietato tranne ciò che è esplicitamente consentito. Da Nord a Sud, i cittadini si trovano ostaggio di uno Stato potentissimo, a cui un'infinità di regolamenti e decreti, imposte e balzelli permette di infiltrarsi in ogni recesso della vita quotidiana: dalle leggi sulla procreazione a quelle sulla prostituzione, dai meandri della giustizia all'autovelox. Un'Entità che governa, senza averne delega, la nostra esistenza ma che è nel contempo abbastanza debole da trovarsi nelle mani di una oligarchia incolta e becera, seppure voracissima. Intanto, nell'economia gravata dalla crisi, dilagano le distorsioni del mercato, dal canone televisivo alla vicenda Alitalia, passando per "liberalizzazioni" che sono solo una cortina di fumo di dirigismo e demagogia. A fare le spese di provvedimenti di salvataggio che a stento nascondono le eterne logiche di interesse, al solito, è il cittadino tassato e vessato, inibito nelle sue libere iniziative." In questa spietata analisi del declino culturale, politico ed economico italiano, Piero Ostellino presenta una preoccupante carrellata di nomi, fatti e dati. Denuncia la latitanza del pensiero liberale, asfissiato da collettivismo e corporativismo. Torneranno mai in Italia le idee, e le prassi, dell'autonomia, della responsabilità individuale, della certezza della pena? La risposta è un durissimo j'accuse rivolto alla pessima politica cui permettiamo di governarci.
"Viviamo, si dice, in un Paese libero. Nulla di più falso: oggi in Italia tutto è vietato tranne ciò che è esplicitamente consentito. Da Nord a Sud, i cittadini si trovano ostaggio di uno Stato potentissimo, a cui un'infinità di regolamenti e decreti, imposte e balzelli permette di infiltrarsi in ogni recesso della vita quotidiana: dalle leggi sulla procreazione a quelle sulla prostituzione, dai meandri della giustizia all'autovelox. Un'Entità che governa, senza averne delega, la nostra esistenza ma che è nel contempo abbastanza debole da trovarsi nelle mani di una oligarchia incolta e becera, seppure voracissima. Intanto, nell'economia gravata dalla crisi, dilagano le distorsioni del mercato, dal canone televisivo alla vicenda Alitalia, passando per "liberalizzazioni" che sono solo una cortina di fumo di dirigismo e demagogia. A fare le spese di provvedimenti di salvataggio che a stento nascondono le eterne logiche di interesse, al solito, è il cittadino tassato e vessato, inibito nelle sue libere iniziative." In questa spietata analisi del declino culturale, politico ed economico italiano, Piero Ostellino presenta una preoccupante carrellata di nomi, fatti e dati. Denuncia la latitanza del pensiero liberale, asfissiato da collettivismo e corporativismo. Torneranno mai in Italia le idee, e le prassi, dell'autonomia, della responsabilità individuale, della certezza della pena? La risposta è un durissimo j'accuse rivolto alla pessima politica cui permettiamo di governarci.
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